SEZIONE CIVILE Fascicolo n.2-3/2018 • La legittima restrizione del diritto di autonomia economica nella compravendita immobiliare (di Chiara Boschetti) • Società sportive dilettantistiche ed esonero dalla imposizione fiscale e contributiva (di Eleonora Pinna) • La giurisdizione italiana sui contratti sammarinesi con consumatori italiani (di Christian Ciavatta) • Il danno da vacanza rovinata (di Federico Cangini)
Per saperne di più
Informazioni su: ForoMalatestiano
Messaggi recenti: ForoMalatestiano
L'art. 21, commi 7 e 8 della legge n. 247/2012 (legge professionale) sancisce l'obbligo di iscrizione alla Cassa per tutti gli avvocati iscritti all'albo. Dunque, la normativa in esame ha modificato le modalità di iscrizione all'ente di previdenza, considerato che prima dell'entrata in vigore della legge professionale, l'obbligo di iscrizione scattava solo quando si superavano i limiti di reddito fissati dall'organo stesso. Tale modifica si iscrive nel solco tracciato dai nostri predecessori, allorquando nel 1933 venne istituito, con la legge n. 406, il primo ente di previdenza con la statuizione che prevedeva l'iscrizione d’ufficio di tutti gli avvocati ed i procuratori iscritti agli albi. Tali istanze previdenziali hanno trovato piena attuazione nella Carta Costituzionale, laddove, con riferimento ai diritti per i lavoratori e dunque anche per i liberi professionisti, è sancito il diritto ad avere assicurati mezzi adeguati per il verificarsi di determinati eventi che provochino situazioni di bisogno. Proseguendo nell'opera di cambiamento della nostra previdenza, il comma 10 dell'art. 21 legge professionale ha stabilito che “non è ammessa l'iscrizione ad alcuna altra forma di previdenza… e non alternativa alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense”. Tale disposizione ha chiarito, una volta per tutte, la portata del principio enunciato nella legge n. 335/'95, c.d. legge Dini, secondo il quale, al fine di armonizzare gli ordinamenti pensionistici, occorre che ogni tipo di attività, anche se residuale, abbia una copertura previdenziale. Pertanto, tale legge all'art. 2, comma 26, ha previsto l'obbligo di iscrizione alla gestione separata I.N.P.S. per tutti coloro che esercitano “... per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo”. L'art. 18, comma 12, d.l. n. 98/'11 (convertito nella legge n. 111/'11), era LA RIFORMA DELLA PREVIDENZA ALLA LUCE DELLA NUOVA LEGGE PROFESSIONALE Clelia Santoro Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 4 già intervenuto per circoscrivere la sfera di applicazione della norma citata, escludendo dal novero le attività professionali degli iscritti in appositi albi; ed alla ratio di questa norma si ispira, giustamente, il comma 10 dell'art. 21, definendo l'esclusività della Cassa Forense, quale ente di previdenza per gli avvocati. Dunque, come scrive l'Avv. Marcello Bella, “... sono ricondotti all'iscrizione e alla contribuzione alla Cassa Forense tutti i redditi di lavoro autonomo riconducibili direttamente o indirettamente alla professione forense, con l'effetto di superare le norme che prevedono facoltà di opzione tra Casse … Lo scopo della norma, pertanto, va orientato alla definizione di confini precisi tra redditi di lavoro autonomo da assoggettare alla contribuzione di Cassa Forense e quelli riservati alla gestione INPS o ad altra Cassa professionale”.1 Ma non sono solo questi i principi ispiratori di una così drastica riforma. Ve ne sono altri di natura ben più prosaica, benchè altrettanto importanti. Infatti, all'inizio degli anni 2000, la Cassa ha commissionato all'Istituto CeRP di Torino2 studi attuariali proiettati fino al 2030, al fine di comprendere per quanto tempo fosse durata una plausibile sostenibilità finanziaria. Da questi studi è emerso che nel 2027, se non si fosse intervenuti, il bilancio tecnico sarebbe stato in sofferenza. Di conseguenza sono state introdotte le prime misure correttive e precisamente: 1 Marcello Bella in Riv. Prev. For. n. 1 Gennaio – Aprile 2015 2 Center for Resarch on Pension and Welfare Policies aumento del contributo integrativo dal 2% al 4%;3 aumento del contributo soggettivo dal 10% al 12% fino al 31 dicembre 2012, dal 1° gennaio 2013 al 14%, dal 1° gennaio 2017 al 15%; aumento del c.d. contributo di solidarietà al 3% per i redditi superiori, per l'anno 2014, a 96.800,00 €; introduzione della pensione c.d. modulare, a decorrere dall'anno 2013, con cui l'avvocato può decidere di accantonare una percentuale del reddito dichiarato, in modo da riscuotere anche una pensione di natura contributiva. Successivamente, il Governo Monti, con il decreto c.d. salva Italia ha richiesto a tutte le Casse previdenziali private di garantire la stabilità finanziaria fino al 2050. (art. 24, comma 24, d.l. 06/12/2011, n. 201, convertito nella legge 22/12/2011 n. 214) Da qui, con la legge professionale è stata sancita, con l'art. 21 l'obbligatorietà di iscrizione alla Cassa Forense per gli iscritti agli albi ed il successivo Regolamento di attuazione, emanato dall'ente stesso ed entrato in vigore il 21 agosto del 2014, ha rideterminato, di conseguenza, i contributi dovuti. Il problema della sostenibilità finanziaria è sorto, perché il nostro sistema pensionistico è, prevalentemente, di tipo retributivo. 3 In vigore a decorrere dal 1° gennaio 2010 ai sensi dell'art. 11 legge n. 576/'80 come modificato dall'art. 6 Regolamento contributi Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 4 In poche parole, a differenza di quello contributivo, in cui la pensione è rapportata ai contributi pagati, in quello retributivo la pensione è rapportata al valore medio dei redditi dichiarati. Dunque, proprio per garantire la pluricitata e da più parti invocata sostenibilità finanziaria, nel corso degli anni, il calcolo della pensione, necessariamente è dovuto variare; e precisamente: dagli anni '80 fino all'inizio degli anni 2000, media degli ultimi 10 anni di professione, per cui gli avvocati hanno dichiarato poco agli esordi della professione, pagando anche contributi di entità risibile e poi negli ultimi 10 anni hanno dichiarato moltissimo in modo da assicurarsi, come, poi, di fatto, è avvenuto, una nutrita pensione; di seguito, media dei migliori 25 anni, meno i peggiori 5; oggi, calcolo della media di tutto l’arco lavorativo.4 Che cosa vuol dire questo? Semplice: i giovani saranno fortemente penalizzati, intanto perché la pensione sarà di gran lunga inferiore a quella attualmente goduta dagli avvocati in pensione; e poi perché i contributi minimi da pagare aumentano anno dopo anno. In altre parole, è un po' come il supplizio di Tantalo: più ci avviciniamo alla pensione, più i soldi si allontanano! V'è da dire che il Regolamento di attuazione ha previsto ulteriori 4 Art. 4 Regolamento per le prestazioni previdenziali approvato dal Comitato dei Delegati in data 05/09/2012 agevolazioni per i giovani, rispetto a quelle di cui alle norme precedenti. Dunque, coloro che hanno meno di 35 anni di età pagheranno il contributo soggettivo minimo ridotto alla metà per i primi 6 anni di iscrizione alla Cassa; non pagheranno il contributo integrativo per i primi 5 anni di iscrizione alla Cassa; per i successivi 5 anni lo pagheranno ridotto alla metà; pagheranno per intero il contributo di maternità.5 Ma v'è di più: è possibile versare la metà della metà del contributo soggettivo minimo per i primi 8 anni di iscrizione alla Cassa per coloro che conseguono un reddito ai fini I.R.PE.F. inferiore a 10.300,00 €. In questo modo, però, la Cassa convalida, ai fini pensionistici, solo 6 mesi e non l'intero anno solare, sia ai fini del riconoscimento del diritto a pensione sia ai fini del calcolo della stessa. Per coloro che si avvalgono della suddetta facoltà resta garantita la copertura assistenziale per l’intero anno solare, anche in caso di versamento ridotto. E', comunque, possibile su base volontaria e sempre nell’arco temporale massimo dei primi otto anni di iscrizione alla Cassa, anche non consecutivi, di integrare il versamento del contributo minimo soggettivo con riferimento ad ogni singola annualità, fino al raggiungimento dell’intero importo, in sede di autoliquidazione dei 5 Art. 7 Regolamento attuativo art. 21 legge n. 247/'12 entrato in vigore il 21/08/2014 Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 4 contributi, con la predisposizione del MOD. 5.6 Tutto bene, i giovani sono di gran lunga agevolati. Se non fosse per un piccolo particolare, non tanto piccolo a ben vedere: la Cassa ha ricalcolato, alla luce del nuovo Regolamento, i contributi già pagati per quanti sono iscritti da meno di 9 anni. Ciò ha comportato l'insorgere di crediti in favore di questi colleghi, crediti che saranno oggetto di compensazione in sede di MOD. 5/2015. E per quanti, invece sono iscritti alla Cassa da più di 9 anni? Nessun cambiamento, se non in peius, tenuto conto che i contributi minimi 2015 sono ulteriormente aumentati. In altre parole, quanti in passato, sono rimasti al di sotto dei minimi, superati i quali scattava l'obbligo di iscrizione alla Cassa, adesso si ritrovano con le agevolazioni di cui si è detto, pur essendo ben oltre la soglia dei 35 anni ed iscritti all'albo da molto tempo. L'art. 12 del Regolamento, quale norma transitoria, sancisce, infatti, l'applicabilità delle agevolazioni a quanti, alla sua entrata in vigore, sono iscritti all'albo, a prescindere dall'età. Pertanto, avvocati ultraquarantenni ed anche cinquantenni, mai iscritti alla Cassa che, dichiarando redditi inferiori ai minimi, per lungo tempo, sono riusciti ad iscriversi alla Cassa meno di 6 Artt. 8 e 9 Regolamento attuativo art. 21 legge n. 247/'12 entrato in vigore il 21/08/2014 9 anni fa, si ritrovano beneficiari delle agevolazioni illustrate. Coloro che, al contrario, si sono iscritti alla Cassa, non appena hanno superato i limiti reddituali, dichiarando, correttamente, quanto guadagnato, oggi non possono usufruire delle agevolazioni previste. Certo, non si può mai riuscire ad accontentare tutti, però sarebbe stato decisamente più equo garantire l'applicabilità delle nuove norme a far data dalla loro entrata in vigore e non farle retroagire, con i risultati di cui si è detto. Per concludere, va di sicuro riconosciuto alla Cassa lo sforzo di venire incontro agli avvocati, soprattutto giovani, in questo difficile momento storico, tenuto conto che la riforma illustrata ha una portata storica. Ci si augura che si prosegua su questa strada. Ai giovani va lo sprone ad essere sempre vigili per il riconoscimento e la tutela dei loro diritti e come diceva Kant, padre dell'Illuminismo: Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!
L’art. 131-bis c.p., inserito subito prima degli articoli concernenti l’esercizio del potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena, è un istituto previsto in attuazione della più ampia delega conferita al Governo per la riforma del “sistema delle pene”. La norma - introdotta con il decreto legislativo n. 28 del 2015 - in ossequio alle indicazioni di delega, configura la possibilità di definire il procedimento con la declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto relativamente ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva. Le esigenze che stanno alla base dell'istituto, sintetizzate nella Relazione di accompagnamento sono; 1) l ’ alleggerimento del carico giudiziario, soddisfabile al meglio ove la definizione del procedimento tenda a collocarsi nelle sue prime fasi; 2) il rispetto del principio di proporzione, che è f u n z i o n a l e a d evitare il dispendio di energie processuali per fatti cd. bagatellari, sproporzionati sia per l'ordinamento sia per l'autore, "costretto a sopportare il peso psicologico del processo a suo carico" ; 3) l'adeguata considerazione della posizione della persona offesa, soddisfatta con la previsione di spazi di interlocuzione anche nell’ipotesi dell'archiviazione (art. 411 comma 1 bis c.p.p.), come pure con l'esplicita previsione normativa dell’efficacia della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto nel giudizio civile o amministrativo di danno (art. 651 bis c.p.p.). Il fondamento costituzionale della non punibilità per “particolare tenuità del fatto”, dunque, può BREVI OSSERVAZIONI SUL PROSCIOGLIMENTO PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO Giorgio Barbuto Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 10 rinvenirsi nei principi di proporzione ed economia processuale: l’istituto in esame rappresenta un momento di bilanciamento tra il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.1 ) e la finalità rieducativa della pena (art.27 Cost.), che presuppone, appunto, la proporzionalità fra la sanzione irrogata e la condotta commessa. Peraltro nella relazione illustrativa allegata allo schema di decreto legislativo, si precisa che l’istituto in esame realizza il principio, anch’esso di rango costituzionale, secondo cui la sanzione penale è l’extrema ratio dell’ordinamento giuridico. Come anticipato, l’istituto della particolare tenuità del fatto trova la sua disciplina sostanziale nell'articolo 131 bis c.p., laddove il relativo apprezzamento è correlato all'offesa che deve essere di "particolare tenuità" e va desunta dalle modalità della 1 In dottrina è stato acutamente osservato che la declaratoria di tenuità può operare, nella sua veste di strumento di tutela del principio di obbligatorietà, anche contro le ragioni dell’economia processuale. Tutti sanno che molte notitiae criminis concernenti fatti cd. bagatellari vengono oggi abbandonate sul binario morto della prescrizione, o rese immuni alla regola dell’obbligatorietà mediante l’ impiego del c.d. “modello 45”. Tuttavia, il nuovo istituto non permetterà di risparmiare tempo e risorse, perché lo smaltimento della notizia di reato avviene già a costo zero: al contrario, dovrà essere spesa l’ulteriore moneta processuale necessaria per la celebrazione del rito archiviativo. (così Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, in Diritto Penale Contemporaneo, 8 luglio 2015, 4). condotta e dall'esiguità del danno o del pericolo, nonché al comportamento c h e non deve risultare "abituale". Seppure, da un punto di vista procedurale, l'articolo 131 bis c.p. è la norma di riferimento allorquando la decisione liberatoria intervenga dopo 1'esercizio dell'azione penale (non a caso la norma trova la sua collocazione in apertura del titolo V del Libro I del Codice penale, subito prima degli articoli concernenti 1'esercizio del potere discrezionale del giudice nell'applicazione della pena), la causa di non punibilità può essere applicata anche durante la fase delle indagini, così soddisfacendo al meglio l'esigenza di alleggerimento del carico giudiziario (v. Relazione di accompagnamento). Infatti, nell'articolo 411 c.p.p. nel nuovo comma 1 b i s è contenuta la disciplina dell'archiviazione "per la particolare tenuità del fatto", la cui peculiarità è rappresentata dall’interlocuzione dell’indagato e della persona offesa che possono censurare nel merito la richiesta di archiviazione. L'interlocuzione, invece, n o n è e s pressamente prevista dopo l'esercizio dell'azione penale, né in sede di udienza preliminare, t a n t o m e n o in sede dibattimentale, in quanto in tali fasi risulta già pienamente garantito il contraddittorio. Anche nel caso in cui la decisione Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 10 intervenga prima dell'esercizio dell'azione penale, con l'archiviazione, i presupposti sostanziali di applicazione sono rinvenibili nell'articolo 131 bis c.p., norma fondamentale che fonda i presupposti e i limiti dell'istituto quale che sia la fase procedimentale. SOGLIA RILEVANTE DELL’OFFESA: NON PUNIBILITÀ ED OFFENSIVITÀ DEL FATTO In tal senso è molto chiara la Relazione di accompagnamento secondo la quale l'applicabilità dell'istituto presuppone sempre e necessariamente un fatto "non inoffensivo". Il giudizio sull’irrilevanza del fatto pretende, infatti, che sia risolta positivamente la valutazione sulla sussistenza, nella fattispecie esaminata, di una condotta riconducibile ad una fattispecie criminosa, perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi, e concretamente punibile; pertanto, deve ritenersi esclusa l'applicabilità della disciplina del reato impossibile ( art. 49 c . p . ) c h e presuppone l’inidoneità assoluta della condotta a ledere l'interesse tutelato dalla norma. Detto altrimenti, l'istituto dell' irrilevanza per particolare tenuità presuppone un fatto tipico, costitutivo di reato e offensivo dell'interesse tutelato, ma da ritenere non punibile in ragione dei principi di proporzione e di economia processuale che stanno alla base del decreto legislativo. Questa conclusione trova conferma dalla circostanza che anche l'archiviazione per la riconosciuta particolare tenuità del fatto produce conseguenze giuridiche sfavorevoli, come attestato dalla prevista iscrizione del relativo provvedimento nel casellario giudiziale, con effetto - tra gli altri - ai fini dell'apprezzamento dell'abitualità ostativa all'applicazione dell’istituto (art. 131 bis, comma 3 c.p.). Ed invero, proprio per le medesime ragioni è stata introdotta un’interlocuzione nel caso in cui il pubblico ministero intenda richiedere l'archiviazione per la particolare tenuità del fatto, sì da consentire all’indagato, mediante l'opposizione, di far valere le ragioni che dovrebbero piuttosto condurre ad una decisione liberatoria nel merito. L'AMBITO DI APPLICAZIONE: L'INDIVIDUAZIONE DEI REATI L'istituto dell'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, in conformità a quanto previsto nella legge delega n. 67/2014, è applicabile ai soli reati puniti con la pena pecuniaria, sola o congiunta a pena detentiva, ovvero con la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni (art. 131 bis, comma 1 c.p.). Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 10 Nel comma 4 dello stesso articolo 131 bis sono dettati i criteri per la determinazione della pena detentiva ai fini dell'applicazione dell'istituto per il caso in cui siano presenti circostanze . E’ stato utilizzato un criterio già adottato nella nostra legislazione, stabilendosi che non si deve tenere conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale, con la precisazione che, in tali evenienze, ai fini del computo della pena, non si deve tenere conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze ex art.69 c.p. Invero, la regola riproduce la soluzione adottata dal codice di procedura penale, ad esempio, in materia di competenza (art. 4 c.p.p.), misure cautelari (art. 278 c.p.p.) ed arresto in flagranza (art. 379 c.p.p.) e si basa sul presupposto che le circostanze ad effetto speciale e quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato rivelano una particolare significatività e sono in qualche modo accostabili – nelle valutazioni del legislatore – a sottospecie di ipotesi autonome. Il comma 5 dell'articolo 131 bis, a sua volta, stabilisce che l’istituto può trovare applicazione anche quando la legge preveda la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante. Non di rado, infatti, il legislatore ricollega alla modesta portata offensiva della condotta criminosa una semplice mitigazione del trattamento sanzionatorio: in taluni casi a costituire circostanza attenuante o elemento costitutivo di un’autonoma fattispecie attenuata è solo la particolare o speciale tenuità del danno o del pericolo ( v. artt. 62 n. 4 c.p., 2640 c.c., 219 comma 3 R.D. 267/1942), in altri casi è la particolare tenuità o lieve entità del fatto, risultante, alternativamente, dalle modalità della condotta o dalla particolare tenuità del danno o del pericolo (art. 311 c.p.), oppure dalle modalità della condotta, infine quando si tratta semplicemente di particolare tenuità del fatto ( v. artt. 323-bis c.p., 648 comma 2 c.p. e 171-ter comma 3 l. 22 aprile 1941, n. 633). Orbene: allo scopo di evitare che le suddette ipotesi, che contemplano la tenuità del fatto, siano considerate prevalenti in virtù di un supposto rapporto di specialità, il citato comma 5 chiarisce che quest’ultime hanno un carattere residuale, essendo destinate ad operare laddove l’art. 131-bis c.p. non possa trovare applicazione, come, ad esempio, nel caso in cui il fatto, pur tenue, non sia occasionale. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 10 I SINGOLI PARAMETRI DI RIFERIMENTO Una volta a c c e r t a t o che il reato rientra nei limiti edittali i quali astrattamente legittimano il ricorso alla causa di punibilità, segue la verifica dei diversi presupposti normativi che consentono di pervenire al giudizio di esclusione della punibilità. Gli "indici-criteri", secondo la nozione offerta dalla Relazione di accompagnamento, sono costituiti dalla "particolare tenuità dell'offesa" - ricavabile dalle "modalità della condotta" e dalla "esiguità del danno o del pericolo" derivato dal reato- e dalla "non abitualità del comportamento". Con riferimento al primo parametro , quanto all’“apprezzamento della "esiguità" - si richiama all’uopo la precondizione della non operatività dell’art. 49 c.p. - si osserva che il dato normativo è rimesso a l l a p r u d e n t e valutazione del giudice. Tale apprezzamento d e v e e s s e r e effettuato avendo riguardo a quanto indicato nell'articolo 133, comma 1, c.p. espressamente richiamato: di particolare rilievo il parametro della gravità del danno o del pericolo di cui al numero 2), gli altri parametri rilevando per la valutazione del concorrente presupposto delle "modalità della condotta". Pare utile sottolineare che il riferimento al danno non è necessariamente correlato ad un danno di tipo patrimoniale p a t i t o dalla persona offesa: invero, l'ambito di operatività dell'istituto si deve ritenere più ampio, potendosi applicare anche a d ipotesi in cui manchi in radice una persona offesa e comunque non si sia verificato un danno risarcibile ( v. artt. 116, 186 e 187 CdS, che si caratterizzano per l’assenza di una persona offesa e di un danno risarcibile). Il legislatore ha poi, tout court, ritenuto che 1'offesa non può, comunque, essere ritenuta di particolare tenuità quando l'autore abbia agito per motivi abietti e futili, o con crudeltà anche contro gli animali, od abbia adoperato sevizie ovvero profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa. Si deve ritenere che, al verificarsi di tali circostanze , debba essere esclusa l’operatività dell’istituto in esame anche laddove, in fatto, non vi sia stata una formale contestazione da parte del pubblico ministero delle relative circostanze aggravanti (v. art.61, nn. 1,4 e 5 c.p.). Inoltre, in ragione del carattere primario ed essenziale dei beni vita ed integrità psico-fisica della persona, è s t a t a esclusa 1' operatività della causa di non punibilità nelle ipotesi in cui l’evento lesivo sia costituito dalla Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 10 morte o dalle lesioni gravissime in danno di una o più persone ( v. artt. 589, 590 e le ipotesi di analoghi eventi che derivino, quale conseguenza non voluta, dalla commissione di un delitto doloso, secondo quanto previsto dall’art.586 c.p.). Quanto alle modalità della condotta, il parametro valutativo s i i n d i v i d u a n e l l ’ a r t . 133 c.p. -come abbiamo vistoesplicitamente richiamato dall'articolo 131 bis , comma 1, c.p. : assumono quindi rilevanza la natura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell'azione. Viene anche in considerazione il grado della colpevolezza, ovverossia l'intensità del dolo o il grado della colpa. In tale versante, al fine di ancorare il giudizio a criteri strettamente connessi alla materialità del fatto, il legislatore ha inteso svincolare, per quanto possibile, il giudizio di irrilevanza da accertamenti di tipo psicologico-soggettivistico, sempre ardui e problematici, quanto più essendo destinati ad essere effettuati nelle fasi prodromiche del procedimento. Tuttavia, allo scopo di circoscrivere la discrezionalità del giudice, sono state introdotte precisazioni che rischiano di apparire superflue o, addirittura, paradossali, come spesso accade quando si legifera per presunzioni: sono state tipizzate, così, situazioni ostative prendendo a modello circostanze aggravanti comuni quali l’avere agito “con crudeltà, anche in danno di animali”, l’avere “adoperato sevizie”, l’avere “profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa”, mentre è consentito giudicare tenue il fatto commesso con abuso dei poteri inerenti ad una pubblica funzione. Il riferimento espresso al primo comma dell’art. 133 c.p. porta, poi, a concludere per l’irrilevanza, ai fini dell’applicabilità dell’istituto, della condotta contemporanea o susseguente al reato, con la conseguenza di dover escludere dal novero dei parametri di valutazione della “particolare tenuità” eventuali condotte riparatorie, restitutorie o risarcitorie. Il terzo parametro è l a "non abitualità" del comportamento incriminato: si definisce – sub comma 3 dell'articolo 131 bis c.p. - "abituale" il comportamento "nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate". In proposito, nessun dubbio interpretativo si pone in ordine all'apprezzamento dell'ipotesi Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 7 di 10 ostativa rappresentata dalla intervenuta dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza, frutto di apposita dichiarazione giudiziale. L'inciso "commesso più reati della stessa indole” merita qualche approfondimento: la mancanza di un esplicito riferimento alla condizione di recidivo, induce del tutto fondatamente a concludere che la "recidiva", sebbene accertata e applicata giudizialmente - purché , pare evidente, non reiterata e specifica - non possa considerarsi di ostacolo a lla declaratoria di non punibilità. In tale direzione, peraltro, si muove la stessa Relazione di accompagnamento, laddove si afferma che la presenza di un "precedente giudiziario" non è di per sé ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in presenza ovviamente degli altri presupposti. E’ , invece, ostativa la situazione di colui il quale, pur non essendosi vista riconosciuta e applicata la recidiva reiterata e specifica, risulti avere commesso, con sentenza irrevocabile, "più reati della stessa indole" . In quest’ottica, del tutto coerente appare l'intervento di modifica sull'articolo 3, comma 1, d.P.R. 3 1 3 / 2 002 con l'inserimento, tra i provvedimenti d a iscrivere nel casellario giudiziale, anche di q u e l l i "che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell'articolo 131 bis c .p . ”. Qualche ulteriore problema può nascere dall’interpretazione delle nozioni di condotta “reiterata” e “plurima”: tali potrebbero intendersi le condotte del medesimo tipo che l’agente reiteri più volte nel medesimo contesto spazio-temporale, non necessariamente riconducibili al paradigma della continuazione o da valutarsi unitariamente al fine della quantificazione della pena (a titolo esemplificativo si pensi alla condotta di chi, in unità di tempo e luogo, abbia proferito diverse espressioni di minaccia grave nei confronti della persona offesa). Quid juris nel caso di commissione di più condotte integranti una pluralità di reati della stessa indole che siano giudicati nell'ambito dello stesso procedimento? Appare conforme al sistema normativo escludere l’applicazione della causa di non punibilità, inducendo a tale conclusione il generico riferimento alla commissione di più reati della stessa indole, senza ulteriori specificazioni. Quanto alla punibilità dei "reati abituali", occorre distinguere tra reati "necessariamente abituali", che sono sulla base del dato testuale esclusi dall'ambito di applicabilità della causa di esclusione di punibilità (si pensi al reato di stalkin g previsto dall’a rt. 612 bis c.p.) ed i reati "eventualmente abituali", ossia Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 8 di 10 quei reati che possono essere commessi anche con il compimento di un solo atto tipico della condotta incriminata, p e r i quali la causa di non punibilità deve ritenersi inapplicabile solo quando risultino commessi più atti tipici della condotta incriminata. In caso di concorso formale si ritiene applicabile l’istituto in esame, che si caratterizza per l’unicità della condotta incriminata. In ogni caso, l’applicazione dell’istituto è subordinato ad una valutazione "congiunta" di tutti i parametri di riferimento posti all'attenzione del giudice. BREVI CENNI SULLA PROCEDURA Alla declaratoria di non punibilità per la particolare tenuità del fatto può procedersi sia nel corso delle indagini preliminari, sia dopo l'esercizio dell'azione penale. Nel corso delle indagini il giudice per le indagini preliminari provvede con ordinanza o decreto di archiviazione, su richiesta del pubblico ministero; dopo l’esercizio dell’azione penale provvede il giudice del dibattimento con sentenza, prima del dibattimento nella ricorrenza dei presupposti di cui all’art.469 c.p.p. Nel caso di sentenza r e s a ex art. 469 c.p.p. il provvedimento è inappellabile; tuttavia può essere proposto ricorso per cassazione qualora si lamenti la carenza dei presupposti di legge, ovvero il mancato rispetto del contraddittorio. La persona offesa, invece, può dolersi solo di non essere stata ritualmente citata, così da consentirgli di comparire; si evidenzia che non è stato previsto l’avviso che contenga l'intenzione del giudicante di definire il procedimento in sede predibattimentale ex articolo 469 c.p.p. Quanto alla sentenza emessa in esito allo svolgimento del processo, sono esperibili gli strumenti ordinari di impugnazione. Con riferimento agli effetti della decisione che applica la causa di non punibilità, s i s e g n a l a i l d isposto dell’articolo 651 bis c.p.p. , il quale stabilisce che l’efficacia della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto nel giudizio civile o amministrativo di danno è limitata alla sentenza resa in esito al dibattimento - non, quindi, a quella resa ex art.469 c.p.p.- ovvero in esito al giudizio abbreviato, salvo, in quest'ultima ipotesi, che vi si opponga la parte civile, la quale non abbia accettato il rito. L’equiparazione muove da una premessa corretta: il proscioglimento per tenuità potrà essere pronunciato in giudizio solo quando l’unica alternativa plausibile sarebbe la condanna, essendo già stato accertato che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 9 di 10 commesso, che il fatto costituisce reato, che il fatto è previsto dalla legge come reato, che non sussistono altre cause di non punibilità dell’imputato e che quest’ultimo è imputabile; in altre parole , nella fattispecie esaminata, si discute di una condotta riconducibile ad una precisa fattispecie criminosa, perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi , quindi punibile, con un imputato che ha avuto possibilità di esercitare le proprie prerogative in chiave difensiva. Analoga efficacia non p o t r à avere, di conseguenza, il provvedimento di archiviazione che applichi la causa di non punibilità. A sua volta, il giudice civile sarà obbligato alla decisione di ritenere il fatto di particolare tenuità nei seguenti termini : appare conforme a giustizia ritenere che, sia con riferimento al danneggiato dal reato che sia rimasto estraneo al processo penale, ma abbia esercitato l’azione risarcitoria in sede civile, sia nei confronti del danneggiato che si sia costituito parte civile nel processo penale o abbia esercitato l’azione risarcitoria dopo la pronuncia della sentenza penale di primo grado, riconoscere un’efficacia al giudicato penale contrasterebbe con la logica sottostante l’art. 24 comma 2 Cost. Di talché, di sostiene che il giudice civile sia obbligato soltanto a considerare il fatto sussistente, di natura illecito e commesso dall’imputato, il vincolo della decisione non estendendosi, invece, agli elementi costitutivi della tenuità, sì che il danneggiato, costituitosi parte civile, possa esercitare l’azione risarcitoria in sede civile al fine di ottenere un ristoro economico che, tuttavia, trattandosi di fatti tenui, del tutto verosimilmente sarà anch’esso di minima entità. De jure condendo, in un’ottica deflattiva, si potrebbe ipotizzare la facoltà del danneggiato di trasferire l’azione in sede civile dopo la sentenza di proscioglimento per tenuità, aggiornando l’elenco delle «eccezioni previste dalla legge” di cui all’art. 75 comma 3 c.p.p. Da ultimo, qualche importante modifica è intervenuta pure in tema di casellario giudiziale: in particolare si evidenzia che la decisione con la quale si sia applicata la causa di non punibilità, anche in sede di archiviazione, deve essere iscritta nel casellario giudiziale, assumendo indiscutibile rilievo ai fini dell'apprezzamento del presupposto dell’abitualità del comportamento, così escludendosi di poter di nuovo accedere n e l f u t u r o alla procedura in parola. LA DISCIPLINA TRANSITORIA In mancanza di una disciplina transitoria, deve farsi applicazione dei principi generali in tema di successione delle norme nel tempo (art. 2 comma 4 c.p.). Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 10 di 10 Si ritiene, in conformità a l l e più recenti pronunce della CEDU, della Corte costituzionale( 2) e della Corte di cassazione che, mentre il princi pio di irretroatti v ità d ella n orma pen a le s favo revo le costi tui s ce un va l ore assolut o, qu ello de1la retroattiv ità della lex mitior è s uscettibile di limitazioni sul p i ano costitu z i o n ale, ove sorrette da giu stificaz i oni og g etti v a m e nte rag i o n e v oli e, in partico l ar e, d alla neces sita di pr e s erv are int e r e s s i, ad e sso contr apposti, di an a logo riliev o. In questo filone giurisprudenziale si inserisce la sentenza n.15449/2015(3) ,secondo la quale l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ha natura sostanziale ed è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la S.C. può rilevare di ufficio ex art. 609, comma secondo, c.p.p. la sussistenza delle condizioni di applicabilità del predetto istituto, fondandosi su quanto emerge dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata. La S.C., in caso di valutazione positiva deve, quindi, annullare la sentenza con rinvio al giudice di merito. 2 C. cost., 22 luglio 2011, n. 236, Giur. cost. 2011, 4, 3021. 3 Cass., sez. III, 8 aprile 2015,
TRIBUNALE DI RIMINI - UFFICIO DEI G.U.P., 1 OTTOBRE 2014 N. 513 La reazione a fronte di un’azione lesiva già del tutto esaurita, l’uso di un mezzo ben sostituibile con altri disponibili e ugualmente adeguati ad apprestare una asserita necessità di difesa e certamente meno lesivi per la vittima, dimostrano univocamente l’inesistenza di una situazione di legittima difesa La legittima difesa putativa postula i medesimi presupposti di quella reale, atteso che l’erronea supposizione dell’agente circa la situazione di pericolo deve essere fondata su un fatto accertato che abbia in sè l’idoneità a far sorgere tale supposizione: in mancanza di dati concreti, l’esimente putativa non può ricondursi ad un criterio meramente soggettivo identificato dal solo ipotetico timore o dal solo, personalissimo, stato d’animo dell’agente. Il tratto di discrimine tra delitto doloso e delitto preterintenzionale, non riguarda tanto l’elemento oggettivo, ma il coefficiente psicologico, che deve tradursi in una volontà e previsione di un evento meno grave di quello verificatosi in concreto, prescindendo completamente dal grado di prevedibilità dell’evento più grave: in particolare, il tratto peculiare del delitto di cui all’art. 584 c.p. risiede nel fatto che l’elemento psicologico consiste nell’avere voluto l’evento minore (percosse o lesioni) e non anche l’evento più grave (morte) che, pur non essendo voluto, rappresenta il risultato dello sviluppo causale insito nell’azione lesiva dell’altrui incolumità personale, conformemente all’espressa definizione contenuta nel comma 1 dell’art. 43 c.p. secondo cui il delitto è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente. La struttura dell’omicidio preterintenzionale è connotata da una condotta dolosa, avente ad oggetto il compimento di atti diretti a percuotere o a ferire, e da un evento più grave non voluto (ossia la morte del soggetto passivo), legato eziologicamente, in progressione causale, all’azione lesiva dell’incolumità personale, mentre GIURISPRUDENZA Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 2 di 32 nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è costituita dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi, desunti dalle concrete modalità della condotta: il tipo e la micidialità dell’arma, la reiterazione e la direzione dei colpi, la distanza tra aggressore e vittima, la parte vitale del corpo presa di mira e quella concretamente attinta. La volontaria assunzione della custodia di stupefacente altrui, con la piena consapevolezza della sua destinazione alla ulteriore cessione a terzi, integra la condotta di partecipazione concorsuale alla fattispecie criminosa dell’art. 73 DPR 309/90, dovendosi escludere una mera connivenza non punibile. (mass. redaz.) TRIBUNALE ORDINARIO DI RIMINI UFFICIO DEI GIUDICI PER L’UDIENZA PRELIMINARE Il Giudice Dott.ssa Fiorella Casadei Ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente S E N T E N Z A Nel processo penale CONTRO ME. Cl. nata a Bu., Va. (Co.), il 12.09.1976 Agli arresti domiciliari PQC – PRESENTE difesa di fiducia dall’avv.to Gu. CA. del foro di Rimini I M P U T A T A A) delitto di cui all’art. 575 c.p. perché - mediante un coltello da punta e taglio della lunghezza complessiva di cm. 35 - sferrava tre fendenti che attingevano HE. An. al collo (con ferita penetrante nel mediastino con sezione completa dell’arteria anonima e parziale della vena anonima), in regione lombare destra ed all’arto superiore sinistro cagionandone la morte. In Mi. (RN) il 19 agosto 2013. B) delitto p. e p. dall’art. 73 d.p.r. 309/90 per aver detenuto a fine di spaccio complessivamente gr. 5,50 di cocaina, suddivisi in nr.6 involucri di cellophane, di cui uno di gr. 0,50 e nr. 5 di gr. 1,00. In Fa. (PU) il 19 agosto 2013 *** Con l’intervento del Pubblico Ministero Dott. Ma. Ce.i, dell’Avv. Pa. Ri. per le parti civili costituite e dell’ avv.to Gu. CA. del foro di Rimini, difensore di fiducia dell’imputata Le parti hanno così concluso: Il Pubblico Ministero chiede la condanna dell’imputata alla pena di anni 11 mesi 4 di reclusione e pene accessorie come previste dalla legge, ritenuto più grave il reato di cui al capo a), concessa l’attenuante di cui all’art. 62 n. 2 c.p., la continuazione e la diminuzione per il rito prescelto. Il difensore delle parti civili Avv. Pa. Ri. chiede affermarsi la penale responsabilità dell’imputata, senza la concessione dell’attenuante della provocazione ma semmai con l’aggravante di cui all’art. 93 c.p.; deposita conclusioni scritte a cui si riporta, chiedendo la condanna dell’imputata al risarcimento del danno Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 3 di 32 derivato dal reato, e, in caso di condanna generica, con la condanna ad una provvisionale a favore di ciascuna parte civile costituita. Chiede altresì la condanna dell’imputata alla rifusione delle spese di costituzione e patrocinio. Il difensore dell’imputata chiede quanto al capo A): - in via principale, sia pronunciata sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato in quanto scriminato dall’esimente della legittima difesa prevista dall’art. 52 c.p.; - in subordine la riqualificazione del fatto come omicidio colposo per il riconoscimento dell’eccesso colposo dell’esimente della legittima difesa ovvero per la sussistenza di esimente putativa della legittima difesa; in estremo subordine chiede la riqualificazione del delitto di omicidio volontario in omicidio preterintenzionale con condanna ad una pena minima previo riconoscimento dell’attenuante dell’art. 62 n. 2 c.p. In ordine al capo B) chiede che sia riconosciuta dell’ipotesi di cui al co. 5 dell’art. 73 DPR 309/90 e, qualora sia dichiarata la responsabilità dell’imputata per entrambi i reati ascritti, sia riconosciuta la continuazione fra gli stessi. ***** MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO 1. - Con decreto di giudizio immediato emesso in data 24 gennaio 2014, ME. Cl., sottoposta a misura custodiale per tale causa, era chiamata a rispondere del delitto di omicidio volontario commesso ai danni di HE. An. e di detenzione a fini di spaccio di grammi 5,5 di cocaina. Entro il termine di cui all’art. 458 c.p.p. l’imputata, mediante il difensore munito di procura speciale, formulava istanza di definizione del procedimento con il rito abbreviato, subordinato ad integrazione probatoria rappresentata dall’assunzione del teste OR. Ga. Fissata udienza per la valutazione di ammissibilità al 17 giugno 2014, in limine si procedeva ad ammettere la costituzione delle parti civili HE. Da., HE. Yu. e HE. Je., figli del de cuis HE. An. All’esito del contraddittorio delle parti, l’imputata ME. Ca., presente in vinculis e assistita da interprete in lingua spagnola, era ammessa al rito abbreviato con le condizioni apposte, come da ordinanza inserita a verbale di udienza. Nella stessa udienza camerale si procedeva ad assumere il testimone OR. e all’esame dell’imputata, espressamente richiesto dal suo difensore. In successiva udienza del 26 settembre 2014, esaurita la discussione, le parti precisavano le rispettive conclusioni come riportate a verbale di udienza e, il giudice, all’esito della camera di consiglio, pronunciava sentenza mediante lettura del dispositivo tradotto in simultanea all’imputata dall’interprete presente, riservando il termine di giorni novanta per il deposito della motivazione, stante la complessità delle questioni di diritto prospettate. Era infine dichiarata la contestuale sospensione dei termini di fase della misura in corso di esecuzione, per identico periodo di Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 4 di 32 giorni novanta ai sensi dell’art. 304 comma 1 lett. C) c.p.p. (OMISSIS) 3. - Così riassunte nelle linee essenziali le fasi salienti della vicenda in esame ed il quadro probatorio delineatosi all’esito delle indagini preliminari, ai fini della valutazione della responsabilità dell’imputata per il delitto di omicidio di HE. An. è necessario esaminare le due questioni centrali del processo che riguardano da un lato, l’esimente della legittima difesa, anche nella forma putativa e dall’altro, l’animus necandi, sulle cui complesse tematiche si sono incentrate le diffuse e approfondite argomentazioni svolte dalla difesa dell’imputata. 3.1. Ha addotto il difensore, muovendo dalla ripetuta affermazione dell’imputata di essersi inconsciamente armata per difendersi da una nuova e temuta aggressione da parte di HE., come ME. avesse utilizzato il coltello unicamente per allontanare da sé l’uomo che già prima l’aveva picchiata e ora muoveva verso di lei per impedirle di recuperare il proprio cellulare, creando così l’inevitabile necessità per costei di difendersi con il primo oggetto che aveva trovato in quell’ambiente ristretto e caotico. Del resto i ripetuti tentativi di richiesta di aiuto ai presenti erano caduti nel nulla e ME. non aveva trovato così alternativa per tutelare la propria incolumità. Orbene, muovendo dalla natura stessa dell’esimente invocata, occorre valutare se, al momento in cui ME. ebbe a colpire la vittima, ripetutamente, con il coltello, sussistesse la necessità di rimuovere il pericolo di un'aggressione mediante una reazione proporzionata e adeguata, e per fare ciò ci si sia avvalsi di mezzi adeguati1 . Si evidenzia innanzitutto, alla luce della ricostruzione derivante dall’esame incrociato delle dichiarazioni dei testi CA. e OR. e dai dati estrapolati dai tabulati telefonici, come la condotta di accoltellamento non sia il segmento di un’unica sequenza cronologica con l’originaria colluttazione tra aggressore e vittima, avvenuta a parti inverse. Se dunque l’iniziale litigio, con reciproche offese da parte di HE. e ME. era approdato ad un “ceffone al volto” della donna, in una costante posizione remissiva, la sua attualità era tuttavia venuta a scemare per le sopravvenute condizioni evolutesi tutte ad esclusivo favore della “vittima” ME. Non solo costei era infatti uscita liberamente dall’abitazione, aveva chiamato i propri amici OR. e RA - , che coerentemente con la situazione descritta le avevano dato indicazioni di chiamare subito “i carabinieri o la polizia” ma, ormai fuori dal contesto violento, era in condizioni di reperire in zona plurimi aiuti, essendo in un contesto residenziale con più appartamenti tutti abitati e conoscendo, fra l’altro, gli occupanti del civico 6 1 Cfr. in tal senso, Cass. Sez. I, 25/10/2005 n.45425 ove si legge: “I presupposti essenziali della legittima difesa sono costituiti da un'aggressione ingiusta e da una reazione legittima: mentre la prima deve concretarsi nel pericolo attuale di un'offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione di un diritto (personale o patrimoniale) tutelato dalla legge, la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e alla proporzione tra difesa e offesa”. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 5 di 32 con i quali aveva festeggiato per tutto il pomeriggio, avendo altresì a disposizione ben due utenze con le quali effettuare chiamata al taxi per allontanarsi definitivamente dalla zona. Eppure la stessa, già in una condizione di sicurezza e fuori da ogni contesto di pericolo, decideva di fare rientro proprio in quella casa ove era stata schiaffeggiata e dove non si sentiva sicura. La libera scelta di porsi nuovamente in situazione di già sperimentato pericolo, avendo ottenuto una concreta alternativa di difesa non solo conseguita. ma divenuta stabile per mancanza di inseguimento da parte del suo aggressore, rimasto dentro alla casa senza manifestare ulteriori intenti aggressivi, elimina ogni attuale e perdurante situazione di pericolo. Il libero affronto, così posto in atto da ME., dava origine, per sua esclusiva volontà, ad una nuova discussione con HE. - la cui aggressività aveva già saggiato per la veemenza verbale rivolta anche a terza persona, quale MA. El., intervenuta a difesa della ragazza - degenerata nel pugno alla bocca, con l’ampia ferita al labbro inferiore. La seconda e nuova offesa - non solo troncata con l’uscita di HE. dall’appartamento, con il soccorso di ME. da parte dei presenti, i quali cercavano di farla calmare e, aderendo alle sue richieste, le fornivano un numero d’emergenza a cui la stessa poteva subito chiedere aiuto, aveva una risolutiva conclusione con l’esplicito atteggiamento di scuse e di riappacificazione che HE. tentava verso ME., rientrando nell’appartamento. L’insorgenza e la successiva evoluzione infausta avveniva poi, secondo il coerente sviluppo narrativo dei testi, ad opera esclusiva di ME., la quale decidendo di rifiutare la proposta di riappacificazione, pur tuttavia sceglieva di rimanere nell’appartamento, nonostante avesse tutto il tempo e la libertà di movimento per allontanarsi, e, una volta rimasta, si armava di un coltello delle cui elevate potenzialità offensive ne aveva immediata e diretta percezione alla sola vista delle dimensioni e della lunghezza della lama, colpiva alle spalle HE. con un duplice colpo, uno alla regione lombare e uno alla spalla, per poi attingerlo, nell’azione di difesa che costui, girandosi frontalmente verso l’aggressore cercava di opporre, al braccio e infine, con colpo mortale assestato, con buona mira e insolita violenza, al collo, recidendone i vasi sanguigni. La posizione iniziale di aggressione della vittima, colpita di spalle e solo a seguire sulla spalla e sul braccio proteso a difesa del capo - così documentando la progressiva roteazione della vittima verso la fonte da cui proveniva l’aggressione - ne registra una situazione di mera difesa, realizzata in una situazione di evidente sproporzione, in quanto HE., posto di spalle, del tutto disarmato, era colto di sorpresa. L’inesistenza di una situazione di pericolo attuale e non altrimenti evitabile - non essendo in atto alcun cenno di aggressione all’integrità di ME. e sussistendo viceversa, per la stessa, la concreta alternativa di poter nuovamente abbandonare Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 6 di 32 l’appartamento senza conseguenze negative per sé - era resa ancora più palese dall’inadeguatezza dello strumento scelto dall’imputata la quale (pur anche soggettivamente prospettandosi una nuova aggressione che peraltro obiettivamente appariva remota a fronte di quel contesto di riappacificazione) ben poteva optare per altro strumento ugualmente adeguato, avendo in quell’ambiente una tale e tanta molteplicità di scelte alternative - quali sedie, tegami, coperchi, altri utensili di cucina, e finanche un televisore ad “altezza uomo” - tutti “a portata di mano”, tutti prontamente afferrabili per le ridotte dimensioni della sala, gran parte dei quali già ritenuti ampiamente adeguati all’offesa/difesa reciproche nel litigio verbale e fisico che si era poco prima verificato e che si era poi spento (così come ha ricordato la teste CA. in merito al “rumore di mobili e sedie spostate” durante il primo litigio). La opzione per un coltello, la cui lama con punta e taglio assai affilato, mostravano, all’evidenza, la loro maggiore potenzialità offensiva, colorano viceversa in modo più evidente la intenzionalità aggressiva sottesa all’agire dell’autrice, la quale pur consapevole della carenza di una perdurante situazione di pericolo, decideva di armarsi e aggredire l’uomo. Se poi si considera il movente dell’aggressione - determinato dall’insorgenza di un sentimento di stizza per la pregressa condotta aggressiva e maleducata di HE., certamente censurabile e deprecabile - risulta inconsistente la tesi della legittima difesa, trovando l’agire di ME. come sua unica causale, la consapevole volontà di aggredire l’altrui bene - vita, avulso da una relazione di inevitabile necessità di difesa di un proprio diritto dal pericolo attuale di una ingiusta offesa. Né può valere a sostegno dell’esimente la allegata esigenza, opposta da ME., di rientrare in possesso del suo cellulare, prepotentemente strappatogli da HE., non solo per la contemporanea disponibilità che la stessa aveva di una seconda utenza ugualmente attiva (tanto che riceveva pressoché in concomitanza con i fatti, alcune telefonate) ma per la evidente sproporzione, nel conflitto fra i beni eterogenei venuti a confliggere fra loro, essendo pacifico che la consistenza dell’interesse leso - ossia la vita di HE. - sia di gran lunga più rilevante, nella gerarchia dei valori costituzionalmente e penalmente rilevanti, di quella dell’interesse difeso - ossia la proprietà di un telefono cellulare - . Ebbene, la reazione di ME. a fronte di un’azione lesiva già del tutto esaurita, l’uso di un mezzo ben sostituibile con altri disponibili e ugualmente adeguati ad apprestare una asserita necessità di difesa e certamente meno lesivi per la vittima, dimostrano univocamente l’inesistenza di una situazione di legittima difesa, sostenuta in un’unica funzione difensiva finalizzata a conseguire l’impunità ovvero la riqualificazione del fatto come colposo con prospettazione di un eccesso colposo nella causa di giustificazione2 2 Cfr. Cass. Sez. V, 11/05/2010 n.26172. In modo assai chiaro la Suprema Corte ribadisce come l’eccesso colposo richieda necessariamente l’esistenza dei presupposti dell’esimente cui si fa riferimento, e di cui se ne superano, colposamente, i limiti obiettivi di Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 7 di 32 applicabilità: “L'assenza dei presupposti della scriminante della legittima difesa, in specie del bisogno di rimuovere il pericolo di un'aggressione mediante una reazione proporzionata e adeguata, impedisce di ravvisare l'eccesso colposo, che si caratterizza per l'erronea valutazione di detto pericolo e della adeguatezza dei mezzi usati. (Nella specie si è escluso che la scriminante di cui all'art. 52 cod. pen., nei confronti dell'imputata, in ordine al delitto di cui all'art. 575 cod. pen. - la quale, aggredita dal marito, lo aveva colpito con un coltello della lunghezza non inferiore a 10 cm - ritenendo che l'utilizzo del coltello non poteva configurarsi quale eccesso colposo di legittima difesa, posto che la vittima non aveva usato arma alcuna e non aveva inferto lesioni all'imputata, che costei aveva forza fisica sufficiente per sottrarsi alle percosse, che in casa vi erano altri soggetti cui chiedere aiuto e che, pertanto, doveva ritenersi che l'imputata fosse consapevole di non essere in pericolo grave per la propria incolumità). Tale orientamento registra, del resto, uniformità con precedenti pronunce fra cui si citano: Cass. Sez. I, 25/10/2005 n. 45425 già sopra citata: “I presupposti essenziali della legittima difesa sono costituiti da un'aggressione ingiusta e da una reazione legittima: mentre la prima deve concretarsi nel pericolo attuale di un'offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione di un diritto (personale o patrimoniale) tutelato dalla legge, la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e alla proporzione tra difesa e offesa. L'eccesso colposo sottintende i presupposti della scriminante con il superamento dei limiti a quest'ultima collegati, sicché, per stabilire se nel fatto si siano ecceduti colposamente i limiti della difesa legittima, bisogna prima accertare la inadeguatezza della reazione difensiva, per l'eccesso nell'uso dei mezzi a disposizione dell'aggredito in un preciso contesto spazio temporale e con valutazione ex ante, e occorre poi procedere ad un'ulteriore differenziazione tra eccesso dovuto ad errore di valutazione ed eccesso consapevole e volontario, dato che solo il primo rientra nello schema dell'eccesso colposo delineato dall'art. 55 cod. pen., mentre il secondo consiste in una scelta volontaria, la quale comporta il superamento doloso degli schemi della scriminante”. Ancora in tal senso anche Cass. Sez. I, 04/12/1997 n.740 : “Il presupposto su cui si fondano sia l'esimente della legittima difesa che l'eccesso colposo è costituito dall'esigenza di rimuovere il pericolo di un'aggressione mediante una reazione proporzionata e adeguata, cosicché l'eccesso colposo si distingue per un'erronea valutazione del pericolo e dell'adeguatezza dei mezzi usati: ne deriva che, una volta esclusi gli elementi costitutivi della scriminante - per l'inesistenza di una offesa dalla quale difendersi - non vi è alcun obbligo per il giudice di una specifica motivazione in ordine ad un eccesso colposo in tale scriminante, pur se espressamente prospettato dalla parte interessata”. ovvero dell’esistenza di legittima difesa putativa3 . Ma né l’una né l’altra ipotesi sono praticabili: da un lato infatti, non può certo ritenersi che l’uso del coltello possa configurarsi, nel caso concreto, quale eccesso colposo di legittima difesa, posto che la vittima HE. era disarmato e addirittura, dopo essersi allontanato dal luogo della discussione e dell’aggressione cui aveva dato corso, era rientrato con esplicito intento di pacificazione, esprimendo pentimento e porgendo delle scuse, così che neppure in astratto sussisteva per l’autrice un contesto di pericolo grave per la propria incolumità4 . La consapevole e voluta scelta di quella precisa arma così offensiva, il suo utilizzo in modo assai esperto, tanto da infliggere un colpo profondo e netto al collo, escludono qualunque profilo di errore nella scelta ovvero nell’uso dei 3 Cfr. Cass. Sez. I, 17/02/2000 n. 4456 : “L'accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa reale o putativa e dell'eccesso colposo deve essere effettuato con un giudizio "ex ante" calato all'interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie sottoposta all'esame del giudice: si tratta di una valutazione di carattere relativo, e non assoluto e astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, dovendo egli esaminare, di volta in volta, e in concreto, se la particolare situazione sia obiettivamente tale da far sorgere nel soggetto l'erroneo convincimento di trovarsi nelle condizioni di fatto che, se fossero realmente esistenti, escluderebbero l'antigiuridicità della condotta prevista dalla legge come reato. In tale prospettiva, la valutazione deve essere necessariamente estesa a tutte le circostanze che possano avere avuto effettiva influenza sull'erronea supposizione, dovendo tenersi conto, oltre che delle modalità del singolo episodio in sè considerato, anche di tutti gli elementi fattuali che - pur essendo antecedenti all'azione - possano spiegare la condotta tenuta dai protagonisti della vicenda e avere avuto concreta incidenza sull'insorgenza dell'erroneo convincimento di dover difendere sè o altri da un'ingiusta aggressione”. 4 In tal senso anche, Cass. Sez. V, 11/05/2010, n.26172 Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 8 di 32 mezzi, non potendo, di conseguenza ritenersi che l’evento nefasto causato da quell’azione sia derivato per un’imperita scelta dell’arma ovvero da una inesperienza e inabilità nell’uso, rilevanti ai sensi dell’art. 55 c.p. Né la descritta situazione è sussumibile nella diversa figura normativa della legittima difesa putativa per la quale sono richiesti i medesimi presupposti di quella reale, atteso che l’erronea supposizione dell’agente circa la situazione di pericolo deve essere fondata su un fatto accertato che abbia in sè l’idoneità a far sorgere tale supposizione: in mancanza di dati concreti, come nel caso in esame, l’esimente putativa non può ricondursi ad un criterio meramente soggettivo identificato dal solo ipotetico timore o dal solo, personalissimo, stato d’animo dell’agente. La condotta tenuta da ME., avulsa da ogni ambito scriminante, anche solo putativo, è dunque riconducibile alla fattispecie di omicidio volontario di cui all’art. 575 c.p. 3.2. - Se, come già sopra illustrato, sotto l’aspetto materiale non è in discussione la ricostruzione dei fatti, non essendo sostenibile una possibile e diversa ipotesi logica in termini di equivalenza o di alternatività5 , tema 5 E’ infatti nel procedimento indiziario che la Suprema Corte richiede, ai fini di un giudizio di responsabilità, una valutazione rigorosa degli elementi indiziari qualificati da precisione, univocità e concordanza e con verifica dell’assoluta incongruenza logica di ogni possibile ipotesi alternativa; in tal senso ex plurimis: Cass., sez. II, 8 febbraio 1991, Ventura, in Cass. pen. 1992, 2160: "Nel procedimento indiziario l'indizio singolo dev'essere sempre reale, certo e univoco per assurgere al rango di elemento probatorio; inoltre, ai fini della prova, occorrono più indizi gravi, univoci e concordanti, valutati nel loro insieme unitario, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 192 del nuovo codice di centrale e decisivo della vicenda diviene allora la ricostruzione dell’elemento soggettivo, che dovrà essere desunto attraverso una lettura complessiva ed unitaria di tutti i dati comportamentali tenuti dall’imputata prima e dopo aver inferto il colpo mortale ad HE. E’ pacifico infatti che la valutazione dell’elemento soggettivo deve fondare su un giudizio ex ante circa l’attitudine causale a conseguire il risultato stabilito, desumibile dalle circostanze di fatto esistenti e note all’agente nel momento in cui pone in essere la condotta.6 In altri termini è dunque da valutare se nel caso concreto, l’imputata attingendo HE. con più colpi inferti con il coltello, e sferrando l’ultimo colpo al rito, sicché il rigoroso e obiettivo accertamento del dato ignoto deve essere lo sbocco necessitato e strettamente conseguenziario, sul piano logicogiuridico, per dare certezza alla attribuibilità del fatto illecito a un comportamento concludente dell'imputato; con esclusione di ogni altra soluzione logica, in termini di equivalenza e di alternatività, sulla base degli elementi indiziari compiutamente esaminati, e con l'indicazione dei criteri, esenti da vizi, di valutazione della prova." E più di recente: Cass. Pen. 20/01- 20/05/04 n.23566 ric. Bruzzese- “L’indizio è un fatto certo dal quale, per inferenza logica basata su regole di esperienza consolidate e affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare, secondo lo schema del cosiddetto sillogismo giudiziario. Al riguardo, è possibile che da un fatto accertato sia logicamente desumibile una sola conseguenza, ma, di norma, il fatto indiziante è significativo di una pluralità di fatti non noti e, in tal caso, può pervenirsi al superamento della relativa ambiguità indicativa dei singoli indizi applicando la regola metodologica fissata nell’art. 192 co.2 c.p.p.” 6 Si condivide sul punto, consolidato orientamento della giurisprudenza, secondo cui la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato va necessariamente desunta da una serie di elementi di fatto concretamente apprezzati nel caso specifico e con valutazione ex ante. In tal senso ex plurimis: Cass. Sez. V, 18/03/86, ric. Quatela e in senso conforme, di recente, Cass. Pen. Sez. I, 10/02/00 n.3185. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 9 di 32 collo, si sia rappresentata la probabilità che si verificasse l’evento mortale e lo abbia voluto secondo uno dei diversi livelli decrescenti di dolo, da apprezzarsi attraverso le regole di comune esperienza e le circostanze attraverso cui l’elemento soggettivo si è esteriorizzato, ovvero, pur prevedendolo, non abbia però voluto in alcun modo cagionare l’evento permanendo in un profilo di colpa.7 7 I principi sopra sinteticamente riferiti e che questo giudice ritiene di condividere pienamente, sono ribaditi fra l’altro, ex plurimis, in: Cass. Sez. I, 26/02/98 n.5969 ric. Held, e più di recente, in conformità: Cass. Sez. I, 10 febbraio 2000 n.3185 ove si afferma: “ciò che ha valore determinante per l’accertamento della sussistenza dell’animus necandi è l’idoneità dell’azione la quale va apprezzata in concreto…” e ancora, nella stessa pronuncia, più diffusamente si afferma: “ il giudizio sull’idoneità degli atti deve essere effettuato ex ante e deve stabilire se gli atti siano adeguati in concreto al raggiungimento dello scopo, tenendo conto dell’insieme delle circostanze di tempo e di luogo dell’azione e delle modalità, con cui l’agente ha operato”. Quanto all’elemento soggettivo il Supremo Collegio a Sezioni Unite, muovendo dall’assunto secondo cui il dolo indiretto e il dolo alternativo rappresentano due forme distinte di dolo, ha poi precisato come l’elemento differenziale attenga essenzialmente alla volizione indiretta dell’evento, nel senso che, nel dolo eventuale “ chi agisce non ha il proposito di cagionare l’evento delittuoso, ma si rappresenta la probabilità, od anche la semplice possibilità, che esso si verifichi e ne accetta il rischio“ mentre nel dolo alternativo “il soggetto attivo prevede e vuole alternativamente, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro evento e risponde per quello effettivamente realizzato.”(Cass. S.U. 25/03/92 n.3428, ric. Casu e altri). In altra pronuncia meno recente tale principio era stato anticipato nel senso che la Corte già aveva sottolineato l’elemento di distinzione fra le due forme precisando che: “il dolo alternativo, che costituisce –al pari di quello eventuale- una forma di dolo indiretto, è configurabile non quando vi sia indifferenza del soggetto agente di fronte al possibile verificarsi di due o più eventi, ma quando quelli alternativamente previsti siano, sia pure alternativamente, entrambi voluti e la indifferenza riguardi solo la verificazione di uno di essi. Il dolo eventuale, invece, è ravvisabile quando l’agente vuole un determinato evento ma ne prevede, come possibile, pure un altro, comportandosi E’ pacifico che la sussistenza di un effettivo e reale animus necandi, debba essere indirettamente desunta, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’autore del fatto, da elementi esterni, e in particolare da quei dati della condotta quali la tipologia, la sede e la pluralità di lesioni - che per la loro non equivoca potenzialità offensiva sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’autore del reato.8 In particolare poi in ambito di delitti omicidiari è imprescindibile, per l’accertamento dell’intensità della volontà dolosa, verificare se l’azione sia stata posta in essere con accettazione del rischio dell’evento, ovvero se l’evento si sia presentato come altamente probabile o certo9 - potendo in tali casi assurgere il dolo diretto alla forma più intensa del dolo intenzionale laddove l’evento sia perseguito come scopo finale - .10 a costo di determinarlo “ (Cass. Sez.I, 21/11/90 n.15267 ric. Pisano). 8 Cfr. Cass.Sez. I, 10 febbraio 2000 n.3185 ove si puntualizza che: “ .. la prova del dolo ha natura essenzialmente indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare da quei dati della condotta che per la loro non equivoca potenzialità semantica sono i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente.…”. 9 In tal senso Cass. Sez. I, 5/11/97 n.9949 ric. Trovato, ove la Corte, affermando la sussistenza della volontà omicida, ha riqualificato il fatto come tentato omicidio e non lesioni personali volontarie in considerazione di diversi elementi indizianti di carattere oggettivo quali le caratteristiche del coltello utilizzato per commettere il fatto, la posizione degli antagonisti, la violenza e la profondità del colpo inferto, la zona del corpo attinta, l’adeguata causale dell’azione criminosa. 10 In tal senso, Cass. S.U. 25/01/94 n. 748 ric. Cassata, ove, il Collegio ha ritenuto sussistere il dolo diretto non intenzionale, in un caso relativo ad un tentato omicidio, ove l’agente, per sottrarsi alla cattura dopo una rapina, aveva risposto al colpo di avvertimento, esploso da una guardia giurata, sparando, ad altezza d’uomo e a breve Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 10 di 32 3.2.1. - Soccorrono in particolare, quali indici rivelatori dell’elemento psicologico che connota nel caso di specie la condotta dell’imputata, le modalità esecutive della condotta, lo strumento utilizzato, la direzione dei colpi, la loro sequenza e il loro numero, nonché la sede attinta. La fredda e lucida scelta di colpire la vittima quando la stessa era di spalle, potendo in tal modo contare sulla sua non immediata reazione e depotenziandone la prestanza e forza fisica maggiore rispetto a quella dell’imputata (più esile e più piccola dell’aggredito), l’altrettanto fredda opzione per il coltello con una lama particolarmente affilata e lunga fra i tanti oggetti contundenti immediatamente reperibili e tutti disponibili, rappresentano i primi, univoci e concordi indici rivelatori di una intensa volontà dolosa. Il numero di colpi, di cui solo quelli al braccio causati da reazione di difesa distanza, numerosi colpi con una pistola ed attingendola ad una coscia. Più chiaramente anche di recente, Cass. Sez. I, 24/05/07 n. 27620 ove testualmente si legge: ”In tema di delitto omicidiario, deve qualificarsi come dolo diretto e non meramente eventuale, quella particolare manifestazione di volontà dolosa definita dolo alternativo, che sussiste quando il soggetto attivo prevede e vuole con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro degli eventi (nella specie, morte o grave ferimento della vittima) causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, con la conseguenza che esso ha natura di dolo diretto ed è compatibile con il tentativo. (Fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto sussistente un dolo diretto di omicidio, quanto meno nella forma alternativa, in relazione a un tentativo di omicidio posto in essere esplodendo numerosi colpi di arma da fuoco contro un carabiniere postosi all’inseguimento degli autori di una tentata rapina aggravata in danno di un istituto di credito, dopo che egli aveva inutilmente intimato l’alt ed esploso con la pistola di ordinanza un colpo in aria a scopo intimidatorio)”. della vittima, la conseguenzialità degli stessi, inferti in più zone del corpo secondo il movimento di rotazione della vittima, la direzione del colpo mortale diretto al collo, con direzione dall’alto verso il basso e da destra verso sinistra, con una energica attività di pressione tanto da recidere completamente l’aorta e parzialmente anche altro importante vaso sanguigno quale la vena anonima, causando una sorta di truce “sgozzamento”, ne rafforzano la già rivelata matrice dolosa, rendendo inverosimile la allegazione dell’imputata circa una disgraziata sequenza di circostanze che avevano fatto sì che la vittima, ponendo in atto un’azione aggressiva e scagliandosi contro di lei avesse intersecato la lama, rimanendone mortalmente attinto. Il tipo di ferita, apprezzata in sede autoptica dal medico legale che l’ha descritta come una “ferita indicativamente valutabile in 11 cm circa, con direzione dall’alto in basso e con obliquità di pochi gradi dall’avanti indietro e da sinistra a destra” 11, non solo incompatibile con una posizione di immobilità dell’imputata ma anche con una impugnatura del coltello solo a scopo difensivo, stretto nel pugno e con il braccio non teso ma vicino al corpo, appare viceversa rivelatrice di una tenace volontà aggressiva, espressa da ME. con quell’ultimo colpo netto, diretto ad una zona vitale di minima estensione cui non avrebbe mai potuto arrivare in modo improvvido e imprudente, per l’obiettiva inconciliabilità della direzione del colpo - dall’alto al basso - sferrandolo 11 Cfr. relazione scritta Dott. P.P. BA. pag. 8. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 11 di 32 dalla sua posizione, più bassa rispetto a quella della vittima che era di statura più alta di lei. La ferita sulla regione posteriore lombare, evocativa di una posizione della vittima con le spalle rivolte al suo aggressore e le plurime ferite da difesa al braccio, colorano infine l’elemento volitivo di un intenso animus necandi, non solo per la pluralità di colpi in parte parati dalla vittima con il braccio, ma per l’assenza di qualunque contesto di reciproche aggressioni o di colluttazione in atto fra le parti, così da determinare in via autonoma ed esclusiva ME. ad armarsi del coltello e utilizzarlo verso l’avversario. Alla luce di tali e tanti elementi rivelatori della volontà omicidiaria, la negatoria opposta dall’imputata assume carattere di mera allegazione che trova una più profonda ragione nella stessa esternazione fatta da ME. nell’immediatezza, davanti al corpo mortalmente ferito di HE. e a quella pozza di sangue esclamando: “che ho fatto, che ho fatto” così come riportata dal teste oculare CA. Wi. Impressionata dalla sua stessa capacità aggressiva, l’imputata, tentando in una sorta di autotutela, di non assumere e non riconoscere neppure verso se stessa la responsabilità per quel fatto odioso commesso, si forniva una serie di giustificazioni, dando al pregresso litigio valore di azione che aveva scatenato la sua offesa e continuando a esternare, in un post factum ormai ineluttabile, la sua volontà di non voler uccidere, ripetendo, quasi come una cantilena, anche nel corso dei colloqui avuti in carcere con i coniugi OR., “ ..non volevo uccidere Angel.. non volevo prendere il coltello, ..l’ho invitato più volte a non avvicinarsi a me.. ho preso il coltello solo per spaventarlo...” 12 I dati circostanziali dell’azione e le sue stesse modalità hanno però svelato, così come già sopra ripetutamente affermato, la reale volontà dell’imputata, risolutamente determinata ad aggredire l’altrui bene - vita. 3.3. - Ha opposto il difensore la mancanza in capo all’imputata di qualunque volontà omicidiaria, prospettando al più la riconducibilità del fatto ad una causalità materiale ascrivibile allo schema normativo dell’art. 584 c.p., in quanto dai comportamenti realmente lesivi consumati dall’autrice ed effettivamente sorretti da adeguato elemento volitivo, sarebbe, derivato, quale conseguenza non voluta, l’evento morte. Muovendo dalla struttura normativa del delitto preterintenzionale invocato dalla difesa, si apprezza come la fattispecie si caratterizzi sotto il profilo soggettivo per la coesistenza di due dati, l’uno di segno positivo ossia la volontà di offendere - con percosse o lesioni - e l’altro di segno negativo, ossia la mancanza di intenzione di uccidere. Da ciò si evince che il tratto di discrimine tra delitto doloso e delitto preterintenzionale, non riguarda tanto l’elemento oggettivo, ma il coefficiente psicologico, che deve tradursi in una volontà e previsione di un evento meno grave di quello verificatosi in concreto, 12 Cfr. ambientale del 31/3/2013 ore 10,00 presso la sala colloqui della casa circondariale di Fo. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 12 di 32 prescindendo completamente dal grado di prevedibilità dell’evento più grave. In altri termini, il tratto peculiare del delitto di cui all’art. 584 c.p. risiede nel fatto che l’elemento psicologico consiste nell’avere voluto l’evento minore (percosse o lesioni) e non anche l’evento più grave (morte) che, pur non essendo voluto, rappresenta il risultato dello sviluppo causale insito nell’azione lesiva dell’altrui incolumità personale, conformemente all’espressa definizione contenuta nel comma 1 dell’art. 43 c.p. secondo cui il delitto è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente. Secondo più recente e condivisibile orientamento giurisprudenziale, si può dunque ritenere che la struttura dell’omicidio preterintenzionale sia connotata da una condotta dolosa, avente ad oggetto il compimento di atti diretti a percuotere o a ferire, e da un evento più grave non voluto (ossia la morte del soggetto passivo), legato eziologicamente, in progressione causale, all’azione lesiva dell’incolumità personale13, mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è costituita dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, “il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi, desunti dalle concrete modalità della condotta: il tipo e la micidialità dell’arma, la reiterazione e la direzione dei colpi, la 13 Cfr. Cass., Sez. I, 16/6/98, Gavagnin. In alcune pronunce riemerge talora in la più risalente teoria che configura la preterintenzione come dolo misto a colpa (cfr. Cass., Sez. V, 11/12/92, P.M. in proc. Bonalda). distanza tra aggressore e vittima, la parte vitale del corpo presa di mira e quella concretamente attinta”.14 In estrema sintesi può perciò sostenersi che “il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale deve essere individuato nella diversità dell’elemento psicologico che, nel secondo reato, consiste nella volontarietà delle percosse e delle lesioni alle quali consegue la morte dell’aggredito come evento non voluto neppure nella forma eventuale ed indiretta della previsione e dell’accettazione del rischio della morte del soggetto passivo”15. Esaminando la condotta tenuta dall’imputata, alla luce del criterio distintivo sopra delineato, appare certo che l’imputata ME. abbia dimostrato con la condotta tenuta, estrinsecatasi attraverso le concrete modalità esecutive, nonché con lo strumento utilizzato e la sede attinta (già illustrate al precedente punto), e alla stregua delle regole di comune esperienza, la consapevole accettazione che dalla sua condotta potesse derivare la morte di HE. Proprio in ragione della chiara previsione e della consapevole accettazione che attraverso la sua condotta e con l’utilizzo di quell’arma potesse derivare la morte dell’aggredito, ME. ha integrato la più grave condotta di omicidio volontario, non potendo ritenersi che l’evento letale costituisse, al momento del suo 14 In tal senso Cass. Sez. I, 21/6/01, n. 25239. 15 Di recente, così si è espressa Cass. sez. I, 27 luglio 2010, n. 29376. Conformi Cass., Sez.I, 20/11/95, Flore; Cass. Sez. I, 25/11/94, P.M. in proc. Piscopo; Cass., Sez. I, 3/03/94, Mannarino; Cass., Sez. I, 14/12/92, Di Grande ed altri. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 13 di 32 agire, un quid pluris solo causalmente legato alla sua condotta ma completamente avulso da ogni prevedibilità/prevenibilità. 4. - Le indagini avviate sul grave fatto omicidiario si estendevano all’ulteriore episodio relativo alla detenzione della sostanza stupefacente rinvenuta nell’involucro trovato vicino al cancello di ingresso ove si era seduta ME. Procedendo a perquisizione locale presso il domicilio dell’imputata ME., in Fa. via Pi. i carabinieri rinvenivano, all’interno di una scatola, colma di riso, e riposta dentro l’armadio della camera da letto, sei involucri termosaldati risultati contenere complessivamente 5,5 grammi di cocaina (di cui cinque da 1 grammo l’uno e uno da 050 grammi). Nella medesima scatola vi era altro involucro contenente grammi 14 di sostanza da taglio. Nella libreria della sala, era rinvenuta una busta di cellophane intrisa di polvere bianca, verosimilmente cocaina. Il cellophane delle confezioni trovate a casa di ME. risultava essere identico a quello della confezione trovata in Mi. vicino a ME.16. La perquisizione eseguita sempre a Fa., in via Go., ove risultava dimorare saltuariamente la vittima HE., e ove si trovava AR. Al. con i figli Fr. e Ni., entrambi maggiorenni, consentiva di rinvenire, su indicazione della donna, occultato in un calzino fra la biancheria da lavare, un involucro di cellophane contenente 10 grammi di cocaina. In merito alla detenzione, AR. se ne assumeva la esclusiva responsabilità, 16 Cfr. verbale del 19/8/13 di perquisizione locale e di sequestro redatti dai carabinieri di Mi. riferendo, in presenza del difensore, di svolgere funzioni di custode per conto di HE., il quale le pagava 200/300 euro alla settimana. La cocaina rinvenuta, era la parte residua di un maggior quantitativo lasciatile in custodia da HE. che proprio il 18 agosto 2013, era passato a ritirare due dei tre originari involucri, dicendole che si sarebbe recato a Ri. Il suo arresto in flagranza, con consulenza tossicologica sulla sostanza sequestrata, comprovava la detenzione di grammi 8,960 di cocaina con principio attivo al 22,8% e idoneità a ricavare 13,6 dosi medie singole. Nella sostanza erano altresì rinvenute tracce di Levamisole, utilizzata per il taglio dello stupefacente come sofisticante. La finalità di spaccio, attribuibile a HE., era riconfermata da AR. anche in sede di interrogatorio reso in sede di convalida avanti al GIP del Tribunale di Pe., così che non vi è dubbio che costui detenesse lo stupefacente, quantomeno in parte, per la illecita commercializzazione, circostanza a cui la stessa ME. ha fatto riferimento, nel suo interrogatorio, attribuendo all’uomo il ruolo di suo fornitore. ME., ammettendo di essersi resa disponibile il 18 agosto 2013 a custodire presso la sua abitazione la parte di cocaina che HE. aveva deciso di non portare a Mi., ha precisato che costui, in altre occasioni le aveva ceduto dello stupefacente di cui la stessa faceva uso. La consapevole accettazione di assumere la custodia di stupefacente altrui, di cui si ha altresì piena consapevolezza della sua ulteriore cessione a terzi, integra, per pacifico Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 14 di 32 orientamento giurisprudenziale, la condotta di partecipazione concorsuale alla fattispecie criminosa dell’art. 73 DPR 309/90, dovendosi escludere una mera connivenza non punibile17. Si condivide in materia, orientamento giurisprudenziale consolidato secondo il quale, il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell'evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di contributo agevolatore, e cioè quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe stato ugualmente 17 Così con costante orientamento la Suprema Corte ha tracciato la linea di demarcazione fra apporto concorsuale e condotta connivente: “in tema di reato concorsuale, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel delitto, va individuata in ciò: mentre la connivenza (che è la scienza che altri sia per commettere o commetta un reato, e come tale non basta a dar vita ad una forma di concorso) postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, la condotta di partecipazione, invece, deve manifestarsi in un comportamento che arrechi un contributo alla realizzazione del delitto, sia pure, mediante il rafforzamento del proposito criminoso degli altri compartecipi, o di agevolazione dell'opera degli altri concorrenti, o che l'agente per effetto della sua condotta idonea a facilitarne l'esecuzione, abbia aumentato la possibilità della sua produzione, perché in forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte dei partecipi” Cass. Sez. VI, 03 giugno 1994. Più di recente, Cass. Sez. IV, 11/06/14 n. 24615 “La distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, nel concorso di persona punibile è richiesto, invece, un contributo partecipativo - morale o materiale - alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell'evento illecito. Ne consegue che il comportamento passivo, ancorché perfettamente consapevole, ma inidoneo ad apportare alcun contributo causalmente rilevante all'altrui realizzazione del reato, integra mera connivenza non punibile.” commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà. In altri termini, in materia di illecita detenzione di sostanze stupefacenti, “la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato commesso da altro soggetto, consiste nel fatto che mentre la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, privo cioè di qualsivoglia efficacia causale, il secondo richiede, invece, un contributo partecipativo positivo, morale o materiale, all'altrui condotta criminosa, assicurando quindi al concorrente, anche implicitamente, una collaborazione sulla quale questi può contare”18. Nel caso in esame, avere fornito adeguato e sicuro luogo di custodia della partita di cocaina ad HE., il quale, diversamente, avrebbe dovuto provvedere con maggiori difficoltà, alla sua conservazione, integra contributo partecipativo di ME. al delitto di cui all’art. 73 DPR 309/90 (non contestato al correo perché vittima del fatto omicidiario di cui risponde l’imputata). Il modesto quantitativo e le ridotte capacità imprenditoriali e distributive, così come emerse dagli atti, riconducono la condotta all’ipotesi di lieve tenuità del comma 5 dell’art 73 DPR 309/90, che ha subito radicali modifiche a seguito delle novelle introdotte con D.L.146/13 convertito con L.10/14 e ulteriormente modificato con L.79/14 in vigore dal 21/5/14. Va innanzitutto dato atto che la mitigazione della risposta sanzionatoria voluta dal legislatore in materia di fatti di lieve entità non ha attinto solo la 18 Così testualmente Cass. 27/11- 13/12/12, n. 48243. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 15 di 32 parte normativa che riguarda la sanzione criminale, ma ha radicalmente innovato nella materia, creando una nuova e autonoma fattispecie criminosa (con le note ricadute in materia di contestuali applicazioni di aggravanti e di recidiva non più vincolate ai giudizi di bilanciamento di cui all’art. 69 c.p.) la cui previsione sanzionatoria è rimasta inalterata e indistinta per i diversi tipi di sostanza, aderendo cioè allo schema introdotto con L.21/2/06 n.49, nelle more dichiarata incostituzionale con la pronuncia n.32/14 del Giudice delle Leggi19. Muovendo dunque da detti principi, deve valutarsi quale delle disposizioni penali a contenuto sostanziale sia più favorevole e in particolare se tale sia la disciplina del comma 5 dell’art. 73 DPR 309/90 nel testo modificato dalla L.49/06 - in vigore al momento di commissione dei fatti avvenuta il 19 agosto 2013 - ovvero la disposizione del comma 5 come novellato dalle disposizioni normative delle L.10/14 (di conversione del D.L.146/13) e L.79/14 (di conversione del D.L.36/14). Muovendo dal consolidato principio di diritto secondo cui deve essere applicata la disposizione in concreto complessivamente più favorevole (e giammai una combinazione di parti di 19 Né l’intervenuta pronuncia di illegittimità costituzionale degli artt. 4 bis e 4 vicies ter della L. 21/2/06 n.49 ha avuto incidenza sul contenuto del novellato comma 5 così che, mentre per l’ipotesi dell’art. 73 commi 1 e 4 DPR 309/90 è ritornato ad applicarsi il rigoroso distinguo fra tipi di sostanze ricomprese nelle diverse tabelle, per la nuova fattispecie criminosa disciplinata dal nuovo comma 5 non sussiste alcuna distinzione fra tipi di droghe, essendo previsto un unico trattamento sanzionatorio disposizioni diverse) 20, pare indubbio a questo giudice che, nel caso concreto, la nuova disposizione come da ultimo novellata con L.79/1421, che riconduce i fatti penalmente rilevanti a fattispecie autonoma, punita con una pena edittale nel massimo di anni quattro di reclusione ed euro 10.329 di multa (a fronte dei cinque anni di cui al comma 5 dell’art. 73 riformato con L. 10/14 e dei sei anni della circostanza attenuante del comma 5 nella previgente disciplina della L. 49/06) sia concretamente e in assoluto più favorevole avendo un massimo edittale inferiore. Tale nuova norma dovrà essere dunque applicata al caso in esame. 5. - Deve da ultimo essere affrontata la questione relativa al trattamento sanzionatorio. Reputa questo giudice di muovere dalle considerazioni su cui fonda un giudizio prognostico per la concessione delle attenuanti generiche. Come già sopra evidenziato, il contesto di riferimenti labili, improntati a scelte emozionali e di soddisfacimento dei desideri di più immediata e superficiale percezione, accomuna vittima e aggressore, legati da un comune senso del vivere avulso da contesti riflessivi e di ricerca di una solida identità ancorata a scelte che ne affermino la connaturale dignità di persona. La vita percepita nella sua accidentalità quotidiana, avulsa da un significato ultimo, si riduce ad estemporanee 20 Di recente, anche Cass. Sez. IV, 19/9/12 n. 42496. 21 Con tale ultima modifica la sanzione criminale per tutte le ipotesi riconducibili al comma 3 dell’art. 73 - riguardanti indifferentemente sostanze riconducibili alla cd. droghe pesanti o leggere- è della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 16 di 32 esigenze materiali cui può rispondersi attraverso guadagni prodotti dal commercio del proprio corpo o da commerci di sostanze pericolose per la salute, autorelegandosi in contesti disgreganti, umilianti e precari. Così in una radicale crisi di identità, ove ogni azione sradicata da un desiderio di bene possibile sia per sé, che per gli altri, è unicamente indirizzata a dare risposte parziali al desiderio profondo di felicità, la persona e la vita dell’altro si sviliscono, non suscitando più alcun interesse e senso di curiosità fino a degradare a beni sopprimibili laddove divenuti odiosi o scomodi. In un tale scadimento e fragilità dell’io, abituato a relazionarsi e misurarsi solo con se stesso, con le proprie estemporanee urgenze mai rapportate alle ontologiche esigenze dell’umano, l’imputata ME., spinta dal sentimento di rabbia suscitatole dalla gratuita aggressione subita, si muove calpestando l’altrui vita, per poi reagire con un sentimento di sgomento e quasi di incredulità di fronte alla soppressione dell’altrui vita umana, dandosi una versione degli accadimenti come una disgraziata sequenza di circostanze avverse, come a voler giustificare, con l’ineluttabilità di una cattiva sorte, la violenza di quel gesto. Una tale fragilità dell’umano non educato a paragonare le proprie azioni ai criteri cognitivi e valutativi di riferimento che devono fondare l’agire della persona adulta - caratterizzante la persona dell’imputata al momento di commissione dei reati in esame - appare avere subìto, nel tempo trascorso fra il fatto omicidiario per cui è processo e la presente pronuncia, un principio di una positiva riflessione con un tentativo di rivisitare i fatti giudicandoli nella loro obiettiva portata deflagrante e mostrando perciò un sincero pentimento per quanto accaduto (esternato anche in udienza durante il suo esame). Una tale inizio di maturazione, unitamente al comportamento remissivo post factum e all’iniziale percorso di rivisitazione della condotta tenuta (pur a fronte di una totale mancanza di cenno a voler farsi carico, materialmente, dei danni causati con il suo gesto ai figli della vittima) consentono di pervenire a giudizio prognostico positivo per la concessione delle attenuanti generiche. Va esclusa, per l’evidente carenza dei necessari presupposti, la sussistenza dell’attenuante della provocazione, neppure invocata dalla difesa. E’ pacifico infatti che nel caso concreto, per le concrete modalità di accadimento dei fatti (già sopra ampiamente illustrate) non sia ravvisabile un rapporto di “causalità psicologica fra offesa e reazione” ma al più di mera occasionalità 22. 22 Cfr. Cass. Sez. I, 14/11/13 n. 47840 ove la Corte enuclea tre presupposti necessari per la sussistenza della attenuante della provocazione: “ai fini della configurabilità dell’attenuante della provocazione occorrono: a) lo stato d’ira, costituito da un’alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il fatto ingiusto altrui; b) il fatto ingiusto altrui che deve essere connotato dal carattere dell’ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale; c) un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra offesa e reazione, indipendentemente dalla proporzionalità fra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza tra l’una e Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 17 di 32 Non si condivide neppure l’ipotesi inversa, prospettata dalla difesa delle parti civili che ha richiesto il riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 93 c.p. per avere l’imputata agito sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. L’aggravante non è infatti stata adeguatamente provata, in quanto è stato acquisito, per sola dichiarazione ammissiva dell’imputata, elemento indiziario in merito ad una assunzione che la stessa aveva fatto nel pomeriggio di cocaina offertale da HE., senza tuttavia avere riscontri, sulla esistenza, al momento del fatto, di effetti droganti ancora presenti e influenti sulla coscienza e volontà dell’imputata. 5.1. - Sempre a fini sanzionatori deve tenersi conto che la condotta di omicidio si è consumata in un autonomo e diverso contesto rispetto a quella di detenzione a fini di spaccio, di sostanza stupefacente. Ne consegue che le sanzioni criminali applicabili alle due fattispecie soggiacciono pertanto alle regole del cumulo materiale ai sensi degli artt. 73, 76 e 78 c.p. Tenuto conto dei criteri di cui all’art. 133 c.p., ed in particolare della condotta omicidiaria in sé obiettivamente grave, anche alla luce della cruenta modalità esecutiva, esplicata attraverso una reiterazione di colpi, fra cui quello mortale inferto al collo con la recisione di vasi sanguigni importanti provocando una sorta di l’altra condotta.” ( fattispecie nella quale la Corte ha escluso l’applicabilità dell’attenuante nel caso di “provocazione lenta” frutto di ipotizzate vessazioni da parte della vittima del delitto di omicidio che ostacolava la relazione extraconiugale della moglie e la cui gelosia non era sfociata in alcun modo in condotte violente). sgozzamento della vittima, deve ritenersi congruo muovere dalla pena prevista nei minimi edittali dall’art. 575 c.p., di anni ventuno di reclusione, diminuita ad anni quindici di reclusione per le attenuanti generiche non concesse nella loro maggiore ampiezza mancando ogni principio di serio ristoro a favore dei prossimi congiunti della vittima. Ai sensi dell’art. 78 c.p. a detta pena deve essere cumulata la pena stimata congrua per il delitto di cui al capo B) - concretamente individuata in mesi sei di reclusione ed euro 1200,00 di multa, muovendo dalla pena base prevista dal comma 5 dell’art. 73 DPR 309/90 nel testo riformato con L.79/14, di mesi nove di reclusione ed euro 1800,00 di multa, diminuita per la concessione delle attenuanti generiche alla pena sopra indicata. Il cumulo materiale delle due sanzioni inflitte, pari ad anni quindici mesi sei di reclusione ed euro 1200,00 di multa va infine ridotta di un terzo per il rito, pervenendosi così alla pena definitiva di anni dieci mesi quattro di reclusione ed euro 800,00 di multa. Segue di diritto la condanna dell’imputata al pagamento delle spese processuali e di quelle di custodia in carcere. Ai sensi degli artt.29 e 32 c.p. va altresì irrogata la pena accessoria dell’interdizione legale per la durata della pena principale, nonché dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici. Va altresì disposta la confisca e distruzione dello stupefacente, del coltello e degli indumenti in sequestro, in quanto i primi due beni soggetti a confisca obbligatoria e i terzi a confisca Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 18 di 32 falcoltativa trattandosi di res pertinenti al reato. I quattro telefoni cellulari in sequestro di cui ai corpi di reato n. 22885 e 22886, ancora sottoposti a sequestro probatorio, vanno dissequestrati e restituiti agli aventi diritto non permanendo più alcuna esigenza probatoria nè emergendo alcuna diretta relazione con i reati in esame. 5.2. - L’affermazione di responsabilità penale dell’imputata ME. importa la condanna della stessa al risarcimento dei danni derivati dal solo delitto di omicidio e subiti dalle costituite parti civili HE. Da., HE. Yu. ed HE. Je., da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese di costituzione e patrocinio sostenute dalle medesime parti civili con patrocinio svolto da unico difensore e liquidate nella misura indicata in dispositivo, in conformità ai parametri normativi di cui agli art. 13 L. 31/12/12 n 247, art.12 e ss. DM 10/3/14 n.55, e tenuto conto della complessità stessa della difesa anche in ragione delle articolate questioni di diritto affrontate in tema di esimente ed elemento soggettivo del reato. Ciò posto, in accoglimento della istanza formulata dalla difesa delle parti civili, l’imputata ME. va infine condannata al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva in favore delle stesse pari ad euro 45.000,00 per ciascuna parte civile, non risultando effettuata alcuna concreta e seria proposta di risarcimento e ritenuta comunque raggiunta entro tali limiti la prova del danno - atteso che all’epoca dei fatti la vittima aveva piena capacità lavorativa trattandosi di persona giovane di 46 anni. Si dispone infine ai sensi dell’art.143 c.p.p. come modificato dal D.L.vo 4/03/14 n. 32 che la presente pronuncia, corredata di motivazione, sia tradotta dall’interprete in lingua alloglotta e che copia sia poi notificata all’imputata ME. PER QUESTI MOTIVI Visti gli articoli 438 e segg. 533, 535 c.p.p., 71,73,76,78 e 62 bis c.p. DICHIARA ME. Cl. colpevole dei delitti alla medesima ascritti ai capi A) e B), esattamente qualificato tale ultimo come ipotesi autonoma di cui al comma 5 dell’art. 73 DPR 309/90 come introdotto dalla L. 79/14, ritenuto il cumulo materiale fra i reati, concesse le attenuanti generiche e con la diminuente per il rito, la condanna alla pena di anni dieci, mesi sei di reclusione ed euro 800,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e di custodia cautelare in carcere. Visti gli artt. 28, 29 e 32 c.p. dichiara ME. interdetta in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena. Ordina la confisca e distruzione dello stupefacente, del coltello e degli indumenti in sequestro; dispone il dissequestro e la restituzione agli aventi diritto dei quattro telefoni cellulari in sequestro di cui ai corpi di reato n. 22885 e 22886. Visti gli artt. 538 e segg. c.p.p. CONDANNA ME. Cl. al risarcimento dei danni morali e materiali a favore delle parti civili HE. Da., HE. Yu. ed HE. Je. in Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 19 di 32 relazione al solo reato contestato al capo A) , da liquidarsi in separata sede, nonché alla rifusione delle spese di costituzione e patrocinio in favore delle stesse parti civili, rappresentate e difese da unico difensore che liquida in complessivi euro 7.927,00 (di cui euro 5805,00 per la prima difesa, euro 1.061,00 per la seconda parte ed ulteriori euro 1.061 per la terza parte ) oltre a spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge; Visto l’art. 539 c.p.p., e su espressa richiesta delle parti civili liquida a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva la somma di euro 45.000,00 per ciascuna parte civile. Visto l’art.143 c.p.p. come modificato dal D.L.vo 4/03/14 n. 32 dispone che la presente pronuncia, corredata di motivazione, sia tradotta dall’interprete che ha già svolto attività peritale nel corso del processo e ne sia poi notificata copia nella lingua alloglotta all’imputata ME. Visti gli artt. 544 comma 3 c.p.p., e 304 comma 1 lett. C) c.p.p., indica in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione e sospende per identico periodo il termine di fase della misura cautelare in corso di esecuzione. Rimini 1 ottobre 2014. (mass. redaz.) Il Giudice Dott. Fiorella Casadei _____________________________ TRIBUNALE DI RIMINI - UFFICIO DEI G.U.P., 3 OTTOBRE 2014 N. 528 La semplice esistenza di una condotta non iure dell’agente non è in sé idonea a integrare la fattispecie di abuso d'ufficio, poiché è necessario che attraverso un tale comportamento si sia raggiunto un risultato contra ius, che potrà tradursi sia in un vantaggio - la cui necessaria natura patrimoniale è di pacifica accettazione - sia un danno ingiusto - la cui natura potrà viceversa essere sia patrimoniale che non patrimoniale. Il rifiuto di ricevere una denuncia che trovi plausibile giustificazione nella specifica tutela delle facoltà difensive del denunciante (invitato a rapportarsi con personale di altro ufficio) non può reputarsi "indebito" e non integra quindi l'elemento oggettivo della fattipecie di cui all'art. 328 c.p. poiché finalizzato a garantire il buon andamento e la trasparenza nell’esercizio della funzione istituzionale. La norma incriminatrice di cui all'art. 328, comma 1, c.p. non sanziona penalmente la generica inerzia o la scarsa sensibilità istituzionale del pubblico ufficiale, ma un rifiuto consapevole di atti da adottarsi senza ritardo per la tutela di beni o interessi pubblici, così che la natura indebita del rifiuto costituisce un elemento strutturale della fattispecie criminosa. Ai sensi dell'art. 328 c.p., gli atti che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio deve compiere senza Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 20 di 32 ritardo non sono quelli genericamente correlati a ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità, ma solo quegli atti che, per dette ragioni, devono essere "immediatamente" posti in essere. (mass. redaz.) TRIBUNALE ORDINARIO DI RIMINI UFFICIO DEI GIUDICI PER L’UDIENZA PRELIMINARE il giudice Dott.ssa Fiorella Casadei Ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente S E N T E N Z A Nel processo penale CONTRO 1. DI. DA., nato a Ba. il 30/03/1982, residente a Ce. (FG), Via Tr., con domicilio eletto presso la caserma Sm. della PO.zia di Stato, Via Le. libero–presente difeso di fiducia dall’Avv. Fa. Pa. del Foro di Bologna 2. RO. DO., nato a Co. (BA) il 26/03/1980, residente a Co. (BA) Via Ca., domicilio eletto presso la caserma Sm. della PO.zia di Stato Via Le. libero– presente difeso di fiducia dall’Avv. Fa. Pa. del Foro di Bologna 3. SA.SA., nato a Ga. (LE) il 15/02/1959, residente a Ga. (FC) Via Lo., domicilio eletto presso il difensore di fiducia Avv. Fi. Al. del Foro di Rimini libero– presente difeso di fiducia dagli Avv. Fi. Al. e Al. Al. entrambi del Foro di Rimini I M P U T A T I DI. e RO.: a) Delitto previsto e punito dagli articoli 61 n. 1, 110 e 323 codice penale, per avere, essendo di servizio di PO.zia presso il Posto di PO.zia di Ri., cagionato intenzionalmente un danno ingiusto a Gi. D’I., all’epoca di anni 61, fermandolo e poi trattenendolo per circa cinquanta minuti, dapprima in piedi al sole, e poi, dopo che D’I. aveva fatto presente di avere difficoltà a rimanere in piedi per lungo tempo, al dichiarato ma pretestuoso fine di compilare un verbale di identificazione, incombenza per la quale erano necessari non più di cinque minuti, facendo ciò in violazione dei doveri di correttezza propri dei pubblici ufficiali nonché del disposto dell’articolo 132 c.p.p. che, nel consentire misure di trattenimento e accompagnamento della persona nei cui confronti occorre compiere un atto, impone l’immediato rilascio non appena l’atto sia stato compiuto. Il danno consiste nella privazione della libertà per un tempo superiore a quello necessario e nell’impossibilità per D’I. di compiere le attività programmate in quel lasso temporale (cure termali nel vicino centro termale). Con l’aggravante di aver commesso il fatto per futili motivi, quale misura di ritorsione nei confronti di Gi. D’I. che li aveva rimproverati per avere occupato la pista ciclabile con l’auto di servizio in sosta (circostanza peraltro vera), così costringendo i ciclisti a percorrere, con maggiori rischi, la sede stradale riservata alle autovetture. In Riccione, 12 luglio 2011 Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 21 di 32 SA. b)Delitto previsto e punito dall’articolo 61 n. 2 e 328 codice penale, per essersi rifiutato, essendo in servizio presso il posto di PO.zia di Riccione, quale responsabile pro tempore del predetto ufficio, di redigere il verbale di denuncia orale sulle dichiarazioni di Gi. D’I., relative ai fatti di cui al capo che precede, atto che doveva essere compiuto per motivi di giustizia senza ritardo. Ciò faceva dopo aver ascoltato la descrizione dei fatti medesimi da parte di D’I., al fine di commettere il delitto di favoreggiamento sotto contestato. c) Delitto previsto e punito dagli articoli 110 e 378 codice penale, per avere, con la condotta di cui al capo che procede, dapprima invitandolo a recarsi altrove per formalizzare la denuncia e poi, alle rimostranze del D’I., affermando di non aver sentito nulla di quello che egli aveva appena denunciato oralmente, infine omettendo di segnalare (nella comunicazione notizia di reato avente protocollo 29/2.2/2011, dal medesimo trasmessa alla Procura della Repubblica) la circostanza che D’I., oggetto di denuncia da parte di RO.e DI., si era presentato lo stesso giorno fornendo una versione dei fatti completamente diversa, aiutato i colleghi DI. e RO.a eludere le indagini nei loro confronti. In Riccione, 12 luglio 2011 *** Con l’intervento del Pubblico Ministero Dott. St. Ce., dell’Avv. Fa. Pa. del Foro di Bologna, dell’Avv. Fi. Al. e dell’Avv. Al. Al. entrambi del Foro di Rimini Il Pubblico Ministero chiede la condanna degli imputati DI. e RO. alla pena di mesi sei di reclusione r con la concessione delle attenuanti generiche; quanto all’imputato SA. chiede la condanna alla pena di anni uno mesi due di reclusione considerata l’aggravante e ritenuta la continuazione, con pene accessorie come per legge. L’Avv. Pa., per gli imputati DI. e RO., chiede l’assoluzione perché la condotta non costituisce reato. In subordine chiede il minimo edittale della pena con concessione non solo delle generiche ma anche dell’attenuanti di cui all’art. 323 bis c.p. e concessione della conversione della pena ai sensi dell’art. 53 L. 689/81 e doppi benefici di legge. L’Avv. Al. Al., per l’imputato Sa., chiede l’assoluzione da entrambi i fatti in contestazione perché il fatto non costituisce reato. Il codifensore Avv. Fi. Al. si associa. MOTIVI DELLA DECISIONE Con richiesta di rinvio a giudizio depositata dal PM in sede in data 14 giugno 2013 gli imputati DI. DA., RO.DO. e SA.SA., nelle loro rispettive qualifiche di dipendenti della PO.zia di Stato con funzioni esercitate presso il posto di PO.zia estivo di Ri., erano chiamati i primi due in concorso fra loro a rispondere del delitto di abuso d’ufficio e il terzo di rifiuto di atti d’ufficio e di favoreggiamento personale. Nell’ambito dell’udienza preliminare tenutasi in data 6 maggio 2014 (dopo una prima udienza tenutasi in data 10 Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 22 di 32 dicembre 2013 ove in via preliminare si disponeva la rinnovazione della notifica alla persona offesa D’I. Gi. non risultata perfezionata) gli imputati, tutti presenti, hanno avanzato richieste di definizione del procedimento con rito abbreviato semplice. Sentito il PM sulla ammissibilità delle istanze, ritenutane la ritualità e tempestività, era emessa ordinanza di ammissione di tutti gli imputati al rito speciale prescelto, con successiva assunzione di spontanee dichiarazioni rese dagli imputati DI. DA. e SA.SA., previ avvisi dei diritti loro spettanti. A successiva udienza straordinaria tenutasi in data 3 ottobre 2014, le parti hanno formulato le rispettive conclusioni come sopra riportate e, all’esito della camera di consiglio è stata pronunciata sentenza mediante lettura in udienza del dispositivo e con indicazione del termine di giorni novanta per il deposito della motivazione, stante il carico di lavoro dell’ufficio GIP/GUP e la complessità delle questioni giuridiche relative alle fattispecie in esame. Sulla base degli elementi acquisiti e utilizzabili in ragione del rito, si reputa insussistente l’elemento materiale dei reati con conseguente pronuncia assolutoria di tutti gli imputati. I fatti di causa prendono origine da quanto accaduto in data 12 luglio 2011 a Ri., in Viale D’A. Quel giorno intorno alle ore 11,00 D’I. Gi. e la coniuge PO. Fr. stavano percorrendo la pista ciclabile esistente in viale D’A., per recarsi allo stabilimento termale. Lungo il percorso adibito ai soli velocipedi i due coniugi incontravano un ostacolo, costituito da un’auto della Polizia di stradale, lasciata in sosta in modo perpendicolare alla carreggiata. In tal modo, la pista ciclabile, divisa dalla corsia di marcia degli altri mezzi a motore solo da una linea tratteggiata dipinta sull’asfalto, senza paletti ovvero cordolo divisorio, risultava così occupata, per circa due metri (ossia la larghezza dell’auto di servizio), dal mezzo delle forze dell’ordine. D’I. e la moglie, dovendo proseguire, erano costretti ad uscire dalla pista e transitare sulla carreggiata ove vi era traffico di auto. Tale situazione indispettiva i coniugi D’I., tanto che la moglie, passando commentava a voce alta: “state occupando la pista ciclabile”, sentendosi rispondere dai due Poliziotti presenti fuori dal mezzo “passa sul marciapiede”. D’I., pubblico ufficiale in pensione e scrupolosamente ligio ad osservare le leggi, intervenendo a difesa della moglie, “sbottava” e rivolgendosi ai Poliziotti, diceva loro “che aveva ragione mia moglie e che la posizione dell’auto costringeva tutti i ciclisti a scartare verso la carreggiata con grave pericolo dato che le auto che circolavano potevano investirli”, aggiungendo poi “voi non sapete fare il vostro lavoro”. I pubblici ufficiali, intenti a servizio ordinario di prevenzione e controllo, invitavano D’I., che continuava a lamentarsi, a esibire i documenti. In particolare il capo pattuglia giustificava la richiesta dicendo trattarsi di “un controllo di Polizia”. Tale contingenza, descritta con sostanziale omogeneità sia da D’I. in Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 23 di 32 denuncia presentata in data 12/7/11 presso la stazione carabinieri di Riccione, sia in successive dichiarazioni rese a chiarimenti in data 23 settembre 201123, sia dalla moglie PO. Fr. la quale aggiungeva che dopo aver notato il marito fermarsi ed esibire un documento ai poliziotti, si avvicinava apprendendo dagli stessi che lo denunciavano “perché ci ha detto che non sappiamo fare il nostro lavoro”24, trovava sostanziale esposizione narrativa anche nella relazione di servizio redatta dai due agenti in servizio. Costoro, identificati nell’ass. DA. DI. e ass. DO. RO., aggregati per il periodo estivo presso la questura di Rimini con appoggio al posto di Polizia di Riccione (ma in servizio presso il reparto prevenzione crimine della Questura di Bologna), indicavano nell’annotazione redatta il 12/7/11 ore 13,10 come l’uomo, lamentando l’occupazione della pista ciclabile da parte dell’auto di servizio, avesse dapprima esordito dicendo “dovete spostarvi da qui, qui date fastidio! Andate da un’altra parte!” proseguendo poi, con una certa petulanza e anche dopo aver superato il punto di intralcio, con frasi del tipo: ”voi non capite niente! voi non sapete fare il vostro lavoro. Questa è la corsia delle biciclette e voi non potete stare”, continuando a esternare, con toni sempre più alti, commenti del tipo: ”io ho lavorato trent’anni in Polizia ma 23 Cfr. denuncia D’I. del 12/7/11 ad affol. 5; sommarie informazioni D’I. in verbale Stazione CC del 23/9/11 affol. 23,24 e allegato schizzo redatto dal dichiarante relativo allo stato dei luoghi, affol. 25. 24 Cfr. sommarie informazioni PO. in verbale Stazione CC del 23/9/11 affol. 26, 27 . mai così male. non mi sono mai comportato come voi” 25. Ciò che era seguito alla fase dell’esibizione del documento era descritto da D’I. come un comportamento vessatorio che i pubblici ufficiali avevano posto in atto nei suoi confronti. Lamentava infatti il denunciante come i due pubblici ufficiali lo avessero trattenuto per “circa mezz’ora”, poi dilatando il tempo nell’integrazione della denuncia del 23/9/11 fino a “50 minuti”, solo per redigere un verbale di identificazione, facendolo attendere sotto il sole estivo, nonostante avesse loro rappresentato di non sentirsi bene e di avere premura di andare poiché aveva le cure termali prenotate, sentendosi rispondere in modo supponente e borioso: “chiederà il rimborso al giudice”. Il verbale, cui faceva riferimento D’I., veniva effettivamente redatto dai pubblici ufficiali, come verbale di identificazione di persona sottoposta alle indagini per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, cui seguiva iscrizione nel registro al n.5193/11 RG NR, definito con decreto di archiviazione per insussistenza dell’elemento materiale.26 La situazione creatasi in viale D’Annunzio e che pareva aver avuto termine con la redazione del verbale di identificazione, vedeva, viceversa, uno sviluppo ulteriore presso gli uffici della Polizia stradale di Ri. ove D’I. insieme alla moglie, si recava intorno alle ore 12,15. 25 cfr. annotazione servizio del 12/7/11 affol. 37 26 Cfr. verbale identificazione ad affol. 15 e richiesta di archiviazione ad affol. 41 Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 24 di 32 A quel punto si svolgeva l’ulteriore fase, che lo stesso dichiarante, nell’esposto presentato presso i carabinieri il 12/7/11, alle ore 14,16, riferiva essere avvenuto alla presenza dell’operatore addetto allo sportello, al quale aveva esposto la sua intenzione di presentare denuncia contro i suoi due colleghi e, a seguire, avanti al responsabile dell’ufficio di Polizia che “si è rifiutato di prendere la denuncia invitandoci a recarci presso il comando dei carabinieri costringendomi a fare 5 chilometri per recarmi presso il comando” dei carabinieri.27 La dinamica descritta solo nella parte finale, era invero preceduta da condotta assai importante per la ricostruzione corretta dei fatti e che aveva incipit nell’esclusivo comportamento di D’I.. Costui infatti - secondo quanto descritto dal sovrintendente capo OP. Gi. addetto allo sportello dell’ufficio del posto di Polizia in data 12/7/11 con orario fino alle ore 14,00 - si era presentato intorno alle ore 13,30 presso gli uffici non già per presentare denuncia sui fatti accaduti in via D’A., che riteneva e che aveva percepito come ingiusti, ma per vedere se poteva esistere una possibilità di “chiarimento, ovvero, “accomodamento ”28 con i due operatori, avendo riflettuto senza l’istintività reattiva del momento, sui fatti così come si erano sviluppati. 27 Cfr. denuncia D’I. del 12/7/11 ore 14,16 presso la stazione carabinieri Riccione. 28 Cfr. verbale interrogatorio OP. del 7/12/12in affol. 72-75. Va evidenziato, come meglio si dirà in seguito che la posizione di OP., iscritto per il reato ex art. 328 c.p. il PM ha manifestato volontà di richiedere archiviazione. La risposta dei due pubblici ufficiali, mediata dall’intervento del responsabile dell’ufficio - SA.SA. - , affacciatosi nell’ingresso in quanto aveva colto una prolungata conversazione fra un cittadino e il sovrintendente OP. Gi., era stata netta e rigorosa, avendo gli stessi rifiutato ogni ulteriore contatto con D’I. - qualificatosi come loro ex collega in quanto era stato a sua volta un Poliziotto - nei cui confronti stavano terminando di redigere la relazione di servizio. Solo a quel punto D’I., “per la prima volta, dichiarava di voler denunciare gli agenti poiché a suo dire, lo avevano denunciato per il solo fatto che li aveva rimproverati…” esternando la sua volontà ad OP. e al responsabile SA. Nella circostanza, SA. esercitando le funzioni di responsabile, aveva dato indicazioni al sottoposto OP. di non procedere direttamente a ricevere la denuncia, spiegando dettagliatamente a D’I. che “..per imparzialità, trasparenza e onestà professionale e solo e soltanto per queste ragioni sarebbe stato consigliabile sporgere denuncia presso la vicina compagnia carabinieri di Ri.” offrendo di “telefonare il maggiore dei carabinieri per annunciare l’arrivo di D’I.”. Le ragioni date erano condivise da D’I. il quale dichiarava che “non intendeva essere annunciato ed asseriva che si sarebbe subito recato presso la compagnia dei carabinieri di Riccione..”29 Effettivamente alle ore 14,16 dello stesso 12/7/11 D’I. si presentava alla 29 Cfr. verbale interrogatorio OPROMOLLA del 7/12/12 in affol. 72-75. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 25 di 32 stazione dei carabinieri di Ri. presso cui formalizzava denuncia, lamentando sia l’attesa in strada, sotto il sole per un semplice controllo e tanto lunga - “circa mezzora” - da avergli fatto “perdere le cure termali”, sia il rifiuto da parte del responsabile del posto di PS “di prendere la presente denuncia invitandoci a recarci presso il comando carabinieri”. Le doglianze lamentate dal denunciante D’I. Gi. sono state assunte in ipotesi accusatoria nella contestazione formale della fattispecie criminosa di cui all’art. 323 c.p.a carico di DA. DI. e di DO. RO. avendo gli stessi violato il generale dovere di correttezza e lo specifico disposto normativo dell’art. 132 c.p.p. avendo trattenuto D’I. oltre il tempo necessario per la sua identificazione, e nella contestazione delle fattispecie criminose dell’art. 328 c.p. e dell’art. 378 c.p. a carico di SA. SA. (quale responsabile dell’ufficio di PS di Riccione e anche a carico di OP. Gi., addetto allo sportello, per la cui posizione il PM ha esternato volontà di richiedere archiviazione)30. Tutti gli imputati, hanno fornito la loro versione dei fatti, rendendo interrogatori in data 6/11/12 (quanto a DI. e RO.) e in data 7/12/12 (quanto a SA.). In particolare DI. e RO., in modo convergente con la parte iniziale della narrazione del denunciante, hanno contestualizzato l’episodio relativo alla sua identificazione, dopo che costui aveva ripetutamente criticato con toni accesi e offensivi il loro operato, senza 30 Cfr. provvedimento di iscrizione del PM del 31/1/12 in affol. 43. Cfr. provvedimento di separazione con indicazione di richiesta di archiviazione per posizione OP., in affol. 120,121. che ve ne fosse motivo in quanto il parcheggio era stato scelto dopo una attenta valutazione dello stato dei luoghi e delle esigenze di servizio. La ostinata condotta tenuta da D’I. aveva poi determinato i pubblici ufficiali a redigere verbale di identificazione per il prospettato delitto di oltraggio, il cui tempo di stesura era stato determinato dal tempo necessario alla centrale per il rintraccio del nominativo di un difensore d’ufficio. Ricordavano gli agenti che D’I. era stato anche fatto sedere nell’auto in quanto aveva dichiarato di non sentirsi bene31. SA., a sua volta ha precisato che a seguito della richiesta fattagli da D’I. - presentatosi come “pensionato della Polizia di Stato” - di trovare “una soluzione bonaria al grave problema che si era creato tra lui e gli operatori di Polizia”, aveva interpellato DÌ. e RO. sulla loro disponibilità ad incontrare D’I. La indisponibilità mostrata, comunicata a D’I., aveva fatto sì che costui, all’improvviso esprimesse la volontà di denunciare i due pubblici ufficiali. Ciò che SA. si era limitato a fare, quale responsabile dell’ufficio, era stato quello di “consigliarlo a sporgere la sua denuncia presso un ufficio di Polizia terzo, o meglio presso la vicina compagnia carabinieri di Ri, tant’è che io mi rendevo disponibile a contattare telefonicamente il maggiore.. per annunciare il suo arrivo…D’I. affermava che non era necessario annunciarlo in quanto si sarebbe recato personalmente”.32 31 Cfr. interrogatorio DI. del 6/11/12 affol. 105. 32 Cfr. interrogatorio SA. del 7/12/12 affol. 79. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 26 di 32 In merito alla condotta tenuta dai pubblici ufficiali DI. e RO. così come sopra ricostruita, deve apprezzarsi come la stessa non integri l’elemento materiale del delitto di cui all’art. 323 c.p. Secondo lo schema normativo delineato a seguito delle intervenute modifiche apportate alla fattispecie in esame va innanzitutto evidenziato come la configurabilità della condotta materiale sia unicamente ancorata a un comportamento violativo “di norme di legge o di regolamenti”, ovvero di inosservanza del dovere di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto 33. D’altra parte, l’uso tecnico della locuzione “violazione di norme di legge” cui fa riferimento l’art. 323 c.p., assume significato diverso rispetto alla locuzione “violazione di legge” usata invece all’art. 2 L.6/12/1974 n. 1034 (istitutiva dei giudizi amministrativi), con la conseguenza che in un sistema di rigidi principi di tassatività e di riserva di legge (propri del diritto penale sostanziale) la locuzione usata all’art. 323 c.p. - che secondo il dato testuale fa riferimento al meccanismo generale delle fonti del diritto34 - non 33 E’ noto infatti che nel sistema previgente alla riforma introdotta con L. L.234/97 qualora la condotta si estrinsecasse nell’adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, assumevano rilievo tutti i tradizionali vizi dell’atto, ossia la violazione di legge, l’incompetenza e l’eccesso di potere. Nell’attuale sistema invece rilevano solo la violazione di norme di legge o di regolamento e l’inosservanza del dovere di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto ovvero negli altri casi prescritti (in tal senso cfr. ex plurimis, Cass. Sez. VI, 16/12/2002 n. 1761. 34 Fra dette fonti devono intendersi naturalmente ricomprese anche quelle che disciplinano l’ufficio cui fa parte il pubblico ufficiale, valendo per la P.A il principio di cd. riserva di legge rinforzata, nel senso può essere interpretata in senso estensivo ovvero analogico secondo la diversa accezione di “violazione di legge” intesa come vizio di legittimità proprio del diritto amministrativo (cui fa riferimento appunto l’art. 2 citato. Né vi è motivo di ritenere che il legislatore abbia fatto un uso improprio della locuzione trasfusa all’art. 323 c.p. volendo invece intendere quella di “vizio di legittimità). Né può sottacersi la radicale modifica introdotta dalla riformulazione del fatto tipico laddove l’originario fine di avvantaggiare o danneggiare, rigorosamente circoscritto entro i confini dell’elemento soggettivo, che la PA deve operare non solo secondo le forme, le procedure e i requisiti normativamente richiesti, ma anche nel rispetto del presupposto stesso per il quale il potere è conferito vigendo in materia il vincolo di tipicità e legalità funzionale. Ciò comporta in coerenza con il sistema che il potere esercitato per un fine diverso da quello previsto per legge, si pone fuori dallo schema di legalità e rappresenta nella sua oggettività offesa all’interesse tutelato, potendo così integrare l’elemento materiale del delitto di cui all’art. 323 c.p. In tal senso dunque si pone il costante orientamento giurisprudenziale che ravvisa nel comportamento di sivamento di potere ipotesi penalmente rilevante. In senso conforme Cass. Sez. VI, 10/12/01, BOCCHIOTTI. E più di recente anche Cass. Sez. VI, 18/10/12 n. 43789 ove la Corte ribadisce che:”in tema d’abuso d’ufficio, la violazione di legge cui fa riferimento l’art. 323 c.p. riguarda non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche le condotte che siano dirette alla realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento della funzione”. Conforme anche Cass. Sez. VI. 13/3/14 n. 32237: ” Il delitto di abuso d'ufficio è configurabile non solo quando la condotta si ponga in contrasto con il significato letterale o logicosistematico di una norma di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi in uno "svolgimento della funzione o del servizio" che oltrepassi ogni possibile scelta discrezionale attribuita al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio”. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 27 di 32 richiesto in forma di dolo specifico con assoluta indifferenza se il soggetto sia riuscito o meno a realizzare lo scopo, è stato trasferito sul piano oggettivo, trasformando il reato di abuso d’ufficio da reato di pericolo a reato di evento, con la conseguente, necessaria, produzione di un effettivo vantaggio patrimoniale o di un danno ingiusto35. In modo puntuale, si è precisato, come secondo il modificato schema normativo il reato di abuso d’ufficio “debba considerarsi come reato causalmente orientato”, nel senso che deve esistere “un nesso di derivazione causale o concausale fra violazione di legge o di regolamento ed evento”.36 Ciò a significare cioè che la semplice esistenza di una condotta non iure dell’agente non è in sé idonea a integrare la fattispecie, poiché è necessario che attraverso un tale comportamento si sia raggiunto un risultato contra ius, che potrà tradursi sia in un vantaggio - la cui necessaria natura patrimoniale è di pacifica accettazione37 - sia un danno ingiusto - 35 In modo chiaro la Suprema Corte ha precisato che: “La nuova formulazione dell'art. 323 c.p., introdotta con la l. 17 luglio 1997, n. 234, ha meglio definito la condotta tipica del pubblico ufficiale, sostituendo la generica formula "abusa del suo ufficio" con la descrizione di un comportamento non più a forma libera, ma vincolata, consistente nella violazione di norme di legge o di regolamento, oppure nella violazione del dovere di astensione, e ha anche trasformato il delitto da reato di mera azione in reato di azione e di evento, giacché elemento essenziale della fattispecie materiale non è più soltanto la condotta illegittima del pubblico ufficiale integrante l'abuso, ma altresì l'ingiusto vantaggio patrimoniale che quella condotta procura o l'ingiusto danno che essa arreca”(cfr. Cass. Sez.VI, 27/04/1998, n. 6561). 36 In tal senso Cass. Sez. VI, 4/03/99 Jacovacci. 37 Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il vantaggio, dopo la riforma del 1997, debba avere natura patrimoniale, pur con condivisibile individuazione, in senso ampio, del suo contenuto, la cui natura potrà viceversa essere sia patrimoniale che non patrimoniale - . Con chiara formula di sintesi la giurisprudenza di legittimità ha così affermato che a seguito della nuova riformulazione del reato di abuso d’ufficio, proprio perché l’ingiustizia del danno o del vantaggio è intesa a definire il risultato effettivo dell’azione, i due “elementi della illegittimità della condotta (concretantesi in una condotta in violazione di legge o di regolamento) e della ingiustizia dell’atto sono distinti e soggetti ad autonoma e distinta valutazione”. In altri termini, si è affermato che “ai fini dell’integrazione del reato di abuso d’ufficio, è necessario che sussista la cd. doppia ingiustizia, nel senso che ingiusta deve essere la condotta in quanto connotata da violazione di legge o di regolamento ed ingiusto deve essere l’evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo che disciplina la materia”.38 L’ingiustizia collegato cioè al “complesso dei rapporti giuridici a carattere patrimoniale, e dunque non solo limitato alle ipotesi in cui vi sia una accrescimento di beni patrimoniali ma a qualsiasi situazione in cui vi sia un accrescimento della situazione giuridica a faovre id colui nel cui interesse l’atto è stato posto in essere”(cfr. Cass.Sez. VI, 14/06/07 n.37521). 38 Cfr. Cass. Sez. VI, 26/11/02 n. 62 e conforme, Cass. Sez. VI, 27/07/06 n. 35381. In applicazione di detto principio dunque non costituisce abuso d’ufficio la condotta del pubblico ufficiale che seppure abbia utilizzato un mezzo illegittimo, non abbia tuttavia perseguito un risultato di per sé ingiusto. Si è in sostanza affermato che nella struttura del reato è stato introdotto il requisito della doppia ingiustizia, nel senso che deve essere contra legem non solo la condotta ma anche il fine perseguito, così che il reato non esiste quando, pur essendo illegittimo il mezzo impiegato, il fine di danno o di vantaggio non sia di per sé ingiusto. Tale interpretazione, deriverebbe, secondo detta giurisprudenza, sia dal tenore letterale della norma, che Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 28 di 32 del vantaggio poi, va valutata con riferimento alla situazione esistente all’epoca della condotta (e non già con un giudizio ex post e sulla base di eventuali novum intervenuti in un momento successivo), e ciò in conformità alla ratio della norma che è indirizzata a garantire la corretta applicazione della legge al momento delle scelte discrezionali del soggetto che esercita pubbliche funzioni. Alla luce dei rammentati interventi normativi che hanno ridisegnato il precetto dell’art. 323 c.p. non è dato scorgere, nel caso concreto, alcuna “doppia ingiustizia”, in quanto la condotta tenuta dai due pubblici ufficiali non è connotata né da illegittimità nè da ingiustizia. Se infatti si vuole assumere che la condotta tenuta dai due imputati al momento dell’identificazione dell’esponente D’I. sia stata violativa dell’art. 132 c.p.p. o più in generale dei doveri di correttezza, le prove acquisite fa riferimento in modo separato all’abusività della condotta e all’ingiustizia del fine, sia dalla ratio della norma che tende a sottrarre alla sanzione penale quelle ipotesi in cui, sia pure attraverso un comportamento materiale formalmente illegittimo, si persegua un fine di per sé legittimo (cfr. Cass. Sez. VI, 27/10/09 n.47978 in tema di omessa astensione di un vice procuratore onorario che aveva in precedenza svolto funzioni di difensore dell’imputato). Di recente e testualmente Cass. Sez. VI, 14/12/12 n. 1733, ove si precisa che l’elemento materiale si sostanzia in una cd.” doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta la quale deve essere connotata da violazione di legge, che dell'evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito. (Nella specie, la Corte ha confermato la condanna di un assessore comunale che aveva votato, disattendendo l'obbligo di astenersi, una delibera di giunta concernente l'erogazione, a favore di un'associazione presieduta da un familiare, di un contributo superiore al limite previsto dal regolamento comunale). sono tutte di segno contrario ed anzi evidenziano una correttezza, trasparenza e serietà di operato ineccepibili. Muovendo infatti dai riscontri probatori in atti, va innanzitutto escluso che la condotta tenuta dai pubblici ufficiali DI. e RO. sia stata violativa delle regole di cui all’art. 132 c.p.p. essendosi verificata al di fuori di un contesto impositivo di accompagnamento coatto disposto con provvedimento giudiziario. Né risulta che la stessa sia stata violativa del più generale dovere di correttezza, avendo i due imputati proceduto in conformità al disposto dell’art. 349 c.p.p. all’identificazione di persona indagata per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale (già alla stessa reso noto tanto che la coniuge CO., intervenendo pro reo, aveva invitato i pubblici ufficiali ad una “maggiore elasticità” nell’interpretare il comportamento tenuto nei loro confronti dal marito, e forse frutto di reciproco malinteso). I tempi tecnici di redazione del verbale di identificazione - iniziato alle ore 11,15 così come è riportato sull’atto stesso - e indicati in ipotesi d’accusa come profilo di violazione del dovere di correttezza poiché si erano dilatati ingiustificatamente per “40/50 minuti” secondo l’affermazione fatta dallo stesso D’I., erano in realtà stati contenuti entro i 25 minuti e ampiamente giustificati da difficoltà obiettive, estranee ad ogni profilo di ingiusta e illegittima condotta degli agenti di PS. In sede di stesura infatti, D’I., invitato a nominare un difensore non vi Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 29 di 32 provvedeva, così che gli agenti, alle ore 11,27 effettuavano chiamata alla centrale operativa, sia per gli ordinari controlli in banche dati sull’identità del soggetto, sia per avere il nominativo di un legale iscritto nelle liste dei difensori d’ufficio e di turno quel giorno. Il dato temporale, risultante dalla registrazione presso la centrale operativa è stato riversato su CD e trascritto, unitamente a tutta la conversazione avvenuta fra l’operatore e uno dei due imputati (non emergendo in modo chiaro neppure dagli interrogatori chi dei due abbia materialmente effettuato la chiamata). Se dunque seguendo il percorso logico del PM l’atto di identificazione avrebbe richiesto un tempo ragionevole stimato in 5 minuti, fino a quel momento i tempi potevano essere ancora accettabili. Ma certo è che da quel momento e fino alle ore 11,36.40 - ossia per ulteriori 9 minuti - l’attesa di D’I. non è certo ascrivibile ad un voluto, ingiustificato e malevolo comportamento degli imputati, ma ad esclusive tempistiche di comunicazione dei dati dalla centrale. E’ provato dalla trascrizione della registrazione in atti come i pubblici ufficiali, in costante e continuo contatto con la centrale, abbiano fornito i dati di D’I. per i controlli, abbiano poi richiesto il nominativo di un difensore d’ufficio - ore 11,29 - abbiano ulteriormente riconfermato i dati all’operatore che glieli richiedeva - ore 11,31 - e infine alle ore 11,36.40 abbiano ricevuto il nominativo dell’avv. Et. Co. quale difensore d’ufficio, chiudendo subito dopo la comunicazione. Né risulta in atti che i pubblici ufficiali abbiano tenuto verso l’esponente una condotta persecutoria e vessatoria, adottando adeguate misure di ristoro verso l’esponente che dichiarava di sentirsi male, né emergendo una condizione di luoghi tale da richiedere particolari e ulteriori premure –dai rilievi fotografici in atti risulta infatti che la pista ciclabile è in gran parte ombreggiata da alberi ad alto fusto (tanto che a pochi metri vi è anche fermata di autobus di linea senza tettoia di protezione39). Se poi si intende porre in evidenza che gli imputati hanno causato un danno ingiusto a D’I. facendogli perdere/ritardare la effettuazione delle cure termali, ciò appare un mero dicit - non essendovi in atti prova alcuna in tal senso poiché non è stato indicato neppure da D’I. se lo stesso avesse una prenotazione ad orario fisso delle cure e se il tempo impiegato a causa di quel controllo abbia comportato solo uno “slittamento” del turno di fruizione ovvero una perdita della prestazione - . E d’altra parte lo stesso D’I., in sede di denuncia presentata ai carabinieri lo stesso 12/7/11 ore 14,16 ha meglio precisato tale circostanza, puntualizzando invece, a chiusura dell’atto, di essere stato “vittima di omissione o rifiuto di atti d’ufficio”, mostrando così di voler in modo particolare censurare la condotta avvenuta presso l’ufficio di PS. Invero la volontà di presentare denuncia esternata da D’I. solo dopo il diniego del richiesto “tavolo di 39 Cfr. n. 4 fotografie ad affol. 29, 30. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 30 di 32 concertazione” appare essere l’epilogo impulsivo e di reazione “difensiva anticipata” opposto da costui a quella denuncia ormai irretrattabile che i due pubblici ufficiali avevano già stilato e che secondo canoni di irreprensibilità li portava perciò a non accettare contraddittorio con l’indagato su un fatto reato che solo l’autorità giudiziaria era legittimata, da quel momento, a vagliare nella sua fondatezza. Anche per le condotte tenute dall’imputato SA. SA. e diversamente qualificate come rifiuto di atti di ufficio e favoreggiamento personale, se ne rileva l’inesistenza dell’elemento materiale. Il rifiuto di redigere “verbale di denuncia orale ..relative ai fatti di cui al capo che precede, atto che doveva essere compiuto per motivi di giustizia senza ritardo” enunciato come nucleo essenziale nell’assunto accusatorio, è smentito dai dati probatori e in primo luogo dalla stessa descrizione fatta, in sede di prima denuncia, dall’esponente D’I., il quale con assoluta onestà ha precisato che il responsabile lo aveva “invitato a recarsi presso il comando dei carabinieri”. Solo in successiva dichiarazione del 23/9/11 D’I. aggiungeva che il responsabile, dopo che gli era stato fatto notare che “comunque anche oralmente avevo denunciato l’accaduto” gli rispondeva che “lui non aveva sentito nulla e mi invitava a rivolgermi ai carabinieri”. L’inattendibilità del particolare aggiunto è reso palese da quanto viceversa narrato da PO. Fr., coniuge dell’esponente la quale, descrivendo lo stesso momento, ha riferito che il responsabile e l’altro Poliziotto le dicevano che “non potevano raccogliere la denuncia perché riguardava personale alle loro dipendenze e invitavano a recarsi per la denuncia dai carabinieri, indicandoci, a richiesta, la strada”, senza alcun cenno ad un rifiuto, da parte del responsabile, di verbalizzare quanto denunciato oralmente dal coniuge. A meglio chiarire il contenuto effettivo di quel diniego opposto dal responsabile ad assumere la denuncia di D’I., invitandolo a rivolgersi alla stazione dei carabinieri, così vicina che già dopo pochi minuti, ossia alle ore 14,16 veniva redatta la denuncia (non dimenticando che D’I. era entrato presso il posto di Polizia verso le 13,30 e lì si era dipanata tutta la vicenda in esame), è la dettagliata versione resa dal sovr. Capo OP. Gi.. Il dichiarante, assunto ai sensi dell’art. 64 c.p.p. - poiché originariamente coindagato per i medesimi fatti ascritti all’imputato SA. - ha esso stesso puntualizzato che “insieme al sost. Comm. SA. avevano solo prospettato e consigliato a D’I. i motivi di opportunità, trasparenza e imparzialità nella vicenda, ragioni apparentemente condivise dall’uomo e di averlo solo consigliato di denunciare presso un ufficio terzo, ma di non voler omettere, o tantomeno favorire alcuno,…significando che da parte dello stesso non sono state fatte insistenze nella ricezione dell’atto di denuncia, ma solo condivisione nel suggerimento, poi accolto e che la sola e unica e iniziale ragione per la quale Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 31 di 32 D’I. era venuto presso l’ufficio.. era quella di conoscere i nomi degli agenti e che a seguito del loro diniego ad incontrarlo, aveva espresso la volontà di sporgere denuncia nei loro confronti”. La modalità di esternazione della condotta tenuta da SA., esattamente percepita nell’immediatezza da D’I. nella sua unica e reale portata di garantire il buon andamento e la trasparenza nell’esercizio della funzione istituzionale e di tutelare il diritto di difesa del denunciante (invitato a rapportarsi con personale di altro ufficio), non solo risponde a quelle prassi di imparzialità e di irreprensibilità connaturali all’immagine di “buona amministrazione”, ma non integra alcun “indebito rifiuto” per la mancanza di una connotazione contra ius di quel diniego di adempimento che trova plausibile giustificazione nella specifica tutela proprio dell’esponente ad esercitare nella sua maggior ampiezza le proprie facoltà difensive40. Alla carenza di una condotta connotata da rifiuto indebito, deve poi aggiungersi la mancanza di una indifferibilità dell’atto. Secondo condivisibile indirizzo giurisprudenziale “ai fini della configurazione del reato di rifiuto di atti di ufficio (art. 328 cod. pen.), l'indifferibilità deve essere accertata in base all'esigenza di garantire il perseguimento dello scopo cui l' atto è preordinato ed agli effetti al medesimo concretamente ricollegabili, con la conseguenza che l'assenza di termini di legge espliciti o la previsione di termini 40 Cfr. in tal senso, Cass. Sez. VI, 9/8/2000 n. 8949. meramente ordinatori non esclude il dovere di compiere l'atto in un ristretto margine temporale quando ciò sia necessario per evitare un sostanziale aumento del rischio per gli interessi tutelati dalla norma incriminatrice” 41. In altri termini ciò a significare che la norma incriminatrice non sanziona penalmente la generica inerzia o la scarsa sensibilità istituzionale del pubblico ufficiale, ma un rifiuto consapevole di atti da adottarsi senza ritardo per la tutela di beni o interessi pubblici, così che la natura indebita del rifiuto costituisce un elemento strutturale della fattispecie criminosa. Con l’ulteriore annotazione che gli atti che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio deve compiere senza ritardo non sono quelli genericamente correlati a ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità, ma solo quegli atti che, per dette ragioni, devono essere "immediatamente" posti in essere. “L'art. 328 co. 1 c.p., non punisce la generica negligenza del pubblico ufficiale, ma il "rifiuto consapevole" di specifici atti o interventi amministrativi da adottarsi senza ritardo per la tutela di beni e interessi pubblici connessi alle peculiari funzioni degli agenti. Con la conseguenza che il "rifiuto" può emergere, oltre che da una esplicita richiesta, anche da una evidente sopravvenienza di situazioni che richiedano oggettivamente un intervento, sicché - di fronte ad una "urgenza sostanziale" indotta da dati oggettivi portati a conoscenza del 41 Così testualmente Cass. Sez. VI. 20/11/2012 n. 47531. Fascicolo n. 1/2016 www.ilforomalatestiano.it Pag. 32 di 32 pubblico ufficiale - la "inerzia omissiva" dello stesso assume "intrinseca valenza di rifiuto" idonea ad integrare il reato”42. Nulla di ciò ha caratterizzato la situazione entro la quale si è realizzata la condotta tenuta da SA. SA., attesa l’inesistenza di un possibile incremento di rischio per la tutela dell’interesse garantito dalla norma e la contestuale assenza di dati oggettivi che rivelassero una situazione di urgenza sostanziale tale da rendere indifferibile ricevere quella denuncia (non vi erano infatti dati che palesassero dispersioni o modifiche delle tracce o cose pertinenti al reato che si intendeva denunciare né tanto meno che vi fosse necessità di adottare vincoli precautelari ai sensi degli artt. 380, 381 e 384 c.p.p.). La condotta tenuta dall’imputato SA. SA. si presenta infine carente di quella peculiare connotazione elusiva che integra la fattispecie criminosa di favoreggiamento personale ascrittagli al capo C). Per stessa esplicita ammissione dell’esponente D’I. infatti, emerge come l’imputato, ben lungi dall’adottare qualunque comportamento fuorviante ovvero di intralcio o ritardo alle indagini, così da creare un effettivo turbamento alla funzione giudiziaria, ne abbia 42 Così testualmente, Cass. Sez. VI 9/04-9/12/2014, n. 51149. In senso conforme anche Cass. 5/11/2014 n. 45884 ove si ribadisce che: “Il rifiuto di un atto d'ufficio, invero, si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un'urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell'atto, in modo tale che l'inerzia del pubblico ufficiale assuma, per l'appunto, la valenza del consapevole rifiuto dell'atto medesimo (Sez. VI, 07/01- 08/02/2010 n. 4995, Rv. 246081)”. sollecitato viceversa un efficace e trasparente esercizio per il tramite dei carabinieri, senza che da ciò sia derivato alcun maggior impegno investigativo43. La carenza dell’elemento materiale importa dunque pronuncia assolutoria anche per tale fattispecie. PER QUESTI MOTIVI Visti gli articoli 442 e 530 c.p.p. Assolve SA.SA., DI. DA., RO.DO. dai delitti a ciascuno rispettivamente ascritti perché il fatto non sussiste. Visto l’art. 544 comma 3 c.p.p. indica in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione. Rimini, così deciso il 3 ottobre 2014. Il Giudice Dott. Fiorella Casadei
Recenti commenti ForoMalatestiano
Nessun commento da parte ForoMalatestiano ancora.